Napoli è una città nemica dei bambini. L’elenco delle mancanze, delle storture, delle dimenticanze, delle “buone intenzioni” di cui è vittima l’infanzia di questa città sarebbe lungo, lunghissimo e forse inutile da fare. Gli errori stanno tutti nel mondo adulto e anche questo è superfluo dire. Chi organizza, chi sceglie, chi programma, chi fa; chi non fa. È vero anche che, nonostante gli adulti che si ritrova, Napoli conserva una fortissima “inclinazione pedagogica”, come scrive Striano ne Il resto di niente: “Senza volerti insegnare nulla ti costringe ad apprendere, fra banalità, segreti spregevoli. I napoletani li succhiano col latte”.
Quando ci si imbatte in qualcosa che somiglia a una eccezione, a qualcosa che è intenzionalmente pedagogico, lo sguardo è attirato, l’attenzione si volge. Lo scorso 24 maggio si è chiuso Maggio all’infanzia, una rassegna di “teatro scolastico” svoltasi al Teatro dei piccoli, struttura interna agli spazi della Mostra d’Oltremare. Ventinove spettacoli, trentadue classi coinvolte, settantasei docenti, seicentocinquanta studenti, come recita il libretto informativo che accompagna la rassegna. Si tratta di allievi della scuola primaria (con un paio di classi di scuola secondaria di primo grado). Siamo nella fascia tra i sei e i dieci anni. Le “recite” di fine anno scolastico sono una prassi stucchevole, ormai consolidata in tutte le scuole del regno. Ma qui siamo in un territorio diverso. Gli spettacoli sono l’esito di un percorso durato un anno: sotto l’etichetta TSVF (teatro scuola vedere fare) i bambini hanno innanzitutto visto teatro (ogni classe almeno tre spettacoli) di compagnie italiane. Alcuni spettacoli decisamente belli. Esiste un teatro per i più piccoli in Italia, in evoluzione, che va ben oltre la maledetta “animazione per bambini”. Alcune compagnie di buon livello: a TSVF, per esempio, è approdato il teatro immersivo della compagnia TPO di Prato. Altre stanno cercando la strada giusta, ancora troppo perse dietro al linguaggio televisivo e a un’idea amorfa di bambino, soggetto da “animare” piuttosto che spettatore consapevole. Alcuni degli spettacoli di TSVF sono stati accompagnati da percorsi di didattica della visione che hanno coinvolto gli insegnanti con lezioni prima e dopo le rappresentazioni.
Il “fare” si è concretizzato in una trentina di laboratori tenuti presso le scuole con i bambini di ciascuna classe: un lavoro sul corpo e l’espressione. Banditi copioni, bella dizione, costumi tradizionali. Lo spettacolo che ciascuna classe ha proposto a maggio è stata la sintesi di questo percorso. I testi sono prodotti dai bambini, i gesti, le azioni, il frutto – acerbo ma diretto – del loro sentire. «Una delle cose dalle quali rifuggiamo è la differenza tra protagonista e comprimari per lavorare più sul gruppo. Qui non troverete scenografie e costumi pirotecnici; chi vorrà fare percorsi professionali di teatro li farà a tempo debito», racconta Morena Pauro ideatrice della rassegna.
Tra gli spettacoli degni di nota di questa edizione, la quarta A della scuola Madonna Assunta di Bagnoli porta in scena uno “studio sull’elemento fuoco” dal titolo Ugnis (fuoco in lingua ucraina) veramente notevole per allestimento e coinvolgimento. «Da grande voglio fare la regista», dice Orietta, una delle due maestre della classe, che è a pochi anni dalla pensione. L’altra, Lucia, spiega che nella loro scuola ogni anno si lavora, come sfondo integratore di tutte le attività, su un elemento naturale: «Quest’anno toccava al fuoco e, ovviamente, lo spettacolo è andato di conseguenza».
La cosa che più incuriosisce è “l’invisibilità” degli insegnanti: molti gruppi salgono sul palco da soli, da soli gestiscono lo spazio, i tempi. Gli insegnanti in platea. Ancora, una prof di Pozzuoli coinvolta: «Quando facciamo i progetti a scuola l’assillo è il prodotto. Qui siamo emozionati il giorno dello spettacolo, ma sappiamo che il lavoro vero, significativo è quello che non si vede, quello che c’è stato prima».
Decostruire la zooificazione dei bambini, insomma; questa pratica malsana del “mettere in mostra” l’infanzia: fotografarla, adultizzarla, usarla per placare la propria ansia di “popolarità”. Un lavoro ancora tutto da fare (soprattutto in città come Napoli dove tutto prende le sembianze dello spettacolo, nel senso negativo che questo termine può anche avere), ma i piccoli passi di Maggio all’infanzia mi sembrano mossi nella direzione giusta; e i semplici spettacoli dei bambini sembrano piccoli atti di riappropriazione di fronte al mondo adulto.
Piccolo aneddoto che spiega: alla fine di ciascuna rappresentazione viene data parola ai bambini per qualsiasi comunicazione vogliano fare al pubblico; in uno di questi momenti uno di loro dice: «Mia mamma non la smetteva di fotografarmi, invece di guardare». Appunto, guardare.
Infine gli adulti. Il progetto è riuscito in un piccolo miracolo: i settantasei insegnanti coinvolti hanno partecipato a un laboratorio teatrale durato un anno intero, ridiventando alunni e portando in scena l’esito del lavoro fatto: come i loro alunni hanno lavorato sull’espressione corporea, sul “controllo” dello spazio, sulla relazione. «Un percorso anche faticoso, che si aggiungeva agli impegni scolastici – dice uno dei partecipanti – ma interessante: raramente gli insegnanti si mettono così tanto in gioco, arroccati come sono nel loro ruolo».
Piccole isole rinfrancanti, insieme a poche altre, in un mare ostile. Città ribelle è l’espressione che accompagna Napoli negli ultimi anni. Beh, una città non sarà mai pienamente ribelle se i suoi bambini sono relegati a esserne “periferia”. È un attimo e, bell’ e buono, questo desiderio di alterità diventa nuova oleografia. (gianluca d’errico)
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