Natale è il momento in cui “si mette mano alla tasca”. In tempi di crisi l’incidenza delle spese natalizie sul budget delle famiglie italiane è particolarmente gravoso. Nel film 32 Dicembre di Luciano De Crescenzo un indimenticabile Enzo Cannavale è disposto a tutto pur di regalare ai suoi bambini un Natale come si deve, sottoponendosi alle angherie del suo ricco e spietato fratello che in cambio di una banconota lo costringe a una “mezz’ora” di umiliazione pubblica in cui rivanga il suo passato di allegro scialacquatore di ricchezze, con spettatori gli altri inquilini del palazzo.
Non molto dissimile è la situazione della sanità pubblica campana dopo decenni di sperperi. Chi pagherà le prestazioni del 2018? È come chiedersi chi pagherà i fuochi d’artificio che il padre di famiglia vuol regalare ai suoi bimbi per Capodanno, considerando che i fondi immessi nel circuito della nostra sanità, come effimeri botti di fine d’anno, andranno a finanziare un sistema che fa acqua da tutte le parti, contribuendo a prolungarne l’agonia senza risolvere nessuno dei suoi problemi.
La sanità pubblica è agli sgoccioli, si dice, e per molti versi è così, ma è anche vero che se si continua a erogare fondi pubblici in un sistema così organizzato è perché gli si riconosce uno status di ammalato senza speranze. Nel novembre 2012 l’allora premier Mario Monti, chiamato a Roma per salvare l’Italia, dichiarò che “la sostenibilità futura del SSN (sistema sanitario nazionale) potrebbe non essere garantita”. Come a dire rassegnatevi, il tempo dell’assistenza pubblica universale è finito. Diverso sapore assume la stessa frase se integrata, invece, con un aggettivo. La sostenibilità futura di “questo” SSN potrebbe non essere garantita. Come dargli torto? Numerose sono le voci, provenienti dal settore politico istituzionale ma anche da quello di opposizione, che reclamano maggiori investimenti in risposta a una graduale riduzione del finanziamento della sanità pubblica in Italia. Questioni fondate su elementi anche condivisibili ma sui quali va fatta chiarezza per evitare di incorrere in errori di strategia.
Negli ultimi anni la spesa sanitaria in Italia è scesa gradualmente, segnando nel 2013 il record negativo di –3,5%, a compimento di una politica di disinvestimento avviata nel 2010 con l’intento di “fronteggiare la crisi”, che, nei fatti, ha scaricato il problema sulle spalle della popolazione, lavoro dipendente e pensioni in prima linea. In realtà, a osservare i dati complessivi del finanziamento pubblico, dal 2001 al 2016 si registra un incremento, dai 71 miliardi annui d’inizio secolo ai 111 del 2016. Il problema è che questo dato secco non rapporta la spesa alle reali esigenze del paese e non la compara a quanto accade nel resto d’Europa. È infatti in base a tali comparazioni e ancor più al calcolo dell’incidenza di tale finanziamento sul PIL (prodotto interno lordo) che ci si può fare un’idea della situazione.
Le manovre finanziarie dal 2012 al 2015 hanno sottratto al finanziamento pubblico del SSN circa 25 miliardi, e altri 7 sono stati perduti rispetto a quanto prevedeva il Patto per la Salute. Il DEF (documento di programmazione economica e finanziaria) del 2016, proseguendo su questa linea ha previsto che il finanziamento del sistema sanitario nel triennio successivo sarebbe sceso al valore del 6,5% del PIL, il che colloca l’Italia molto in basso nella graduatoria dei Paesi OCSE con una spesa inferiore a paesi come il Regno Unito o la Francia.
Il DEF, in realtà, illustra previsioni più ottimistiche, sostenendo che nel triennio 2017-2019 il PIL crescerà in media del 2,8% per anno mentre la spesa sanitaria aumenterà a un tasso medio annuale di circa 1,5%. In realtà dietro questi numeri si cela un inganno in quanto la sanità ha ricevuto sempre meno di quanto previsto, come illustrato dalla Corte dei Conti nel Rapporto 2016 sul coordinamento della finanza pubblica: i 117,6 miliardi previsti dal DEF 2013 sono diventati 116 nel 2014 e 113 nel 2016, per arrivare a un finanziamento reale di 111 miliardi di euro. Cifre fredde che si traducono in carenza di servizi e personale, inefficienza di sistema, incapacità di progettare il futuro ma anche di assicurare assistenza adeguata nel presente. Nonostante il quadro preoccupante, tuttavia, il sistema in qualche modo si mantiene in piedi. Aumentano i disservizi e cresce la percentuale di mortalità e danni da malattie croniche nelle fasce sociali a basso reddito, ma nel complesso quel collasso che tutti si aspettano da un momento all’altro non arriva. Come fa questo sistema a reggersi?
L’ultimo rapporto ISTAT sul sistema dei conti della sanità riferiti al periodo 2012-2016 quantifica la spesa sanitaria italiana corrente nel 2016 pari a 149.5 milioni di euro, sostenuta per il 75% dal settore pubblico e per il restante 25% dal settore privato. La discrepanza tra finanziamento pubblico e spesa sanitaria è coperta dal settore assicurativo e dai fondi integrativi in minima parte: per l’1,5% da assicurazioni sanitarie volontarie, per lo 0,4% dalle imprese e per il restante 0,4% da istituzioni no profit. Il 22,7% di quel divario tra finanziamento pubblico e spesa corrente è, perciò, sostenuto direttamente dalle famiglie, con quella modalità di finanziamento della sanità che i tecnici chiamano “out of pocket”. Cioè se vogliamo mantenere il SSN dobbiamo letteralmente mettere “mano alla tasca”, come si dice a Napoli.
Vista da Sud questa situazione è particolarmente drammatica. I dati sulle condizioni di vita delle famiglie italiane illustrano una situazione paradossale, nella quale a una diffusa crescita del reddito disponibile e del potere d’acquisto corrisponde un aumento della disuguaglianza economica e del rischio di povertà. Questa crescita del reddito è infatti riferita soprattutto ai settori più ricchi, mentre il 30% degli italiani è a rischio di povertà o esclusione sociale. Nelle regioni meridionali questa percentuale sale fino al 47% del totale, a fronte del 21% del Nord Ovest e del 17% del Nord Est.
La metà circa della popolazione meridionale, insomma, fronteggia i propri problemi di salute con la perdita progressiva dei servizi, lo strumento del ticket come partecipazione alla spesa completamente sganciato dalla reale situazione dei redditi, la diminuzione del personale medico come effetto tra i più dolorosi del lungo commissariamento della sanità. Questo si traduce in ritardi nei consulti specialistici, impossibilità in molti casi di eseguire esami e scarsa partecipazione ai programmi di prevenzione, sui quali il Mezzogiorno mostra i dati più bassi del paese.
In questa situazione, è interessante analizzare un elemento che trova poco spazio nel dibattito pubblico, come il finanziamento del sistema sanitario nazionale. Un aspetto centrale nel capitolo della tutela della salute, in virtù dello stretto legame fra il diritto garantito dall’articolo 32 della carta costituzionale e le risorse disponibili. Proprio sul “disponibili” si gioca la partita più importante, perché questo aggettivo è oggi determinato da elementi prevalentemente tecnici e non politici, da esigenze di bilancio e non dalla reale domanda di salute della popolazione. Salute pubblica la cui tutela è vincolata a criteri di tipo economico-finanziario in un quadro di politiche sanitarie orientate alla produzione di provvedimenti tecnico-amministrativi che non possono dare risposte esaustive ai bisogni della popolazione.
Accanto alla questione relativa al “quanto”, al volume delle risorse disponibili, c’è il tema altrettanto importante del “come”. Il riparto del fondo delle regioni, infatti, avviene attraverso il meccanismo della “quota capitaria pesata”, un insieme di criteri applicati alla popolazione delle singole regioni che identificano il presunto fabbisogno di fondi utili. In base all’attuale assetto normativo, costruito dalle riforme che si sono succedute a partire dal 1992, il 97% circa delle risorse stanziate dal fondo nazionale viene destinato ai Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), ossia i servizi e le prestazioni standard, individuate a livello centrale, che vanno garantite a ogni cittadino. Questi fondi vengono ripartiti tra regioni e province autonome proprio attraverso il meccanismo della “quota capitaria pesata” che affianca al valore numerico della popolazione residente fattori come l’età, il sesso, il livello di assistenza, i tassi di mortalità e gli indicatori epidemiologici. Una ripartizione che ha provocato squilibri, più volte oggetto di scontro politico in sede di Conferenza Stato-Regioni. Con tale metodo di calcolo, per esempio, la Campania presenta un valore più basso rispetto a una regione più ricca ma più “anziana” come la Liguria che riceve una retribuzione capitaria più alta. È l’effetto di un meccanismo distributivo che non tiene conto degli indici di deprivazione, cioè della situazione di svantaggio socio-economico di una regione. In attesa di un ripensamento del sistema, è chiaro che questo fronte sia decisivo nel provare a riequilibrare una situazione che mostra un acuirsi progressivo degli squilibri.
Disoccupazione, bassa istruzione, sovraffollamento, proprietà della casa, presenza di minoranze etniche, reddito pro-capite sono indicatori il cui inserimento nel meccanismo andrebbe sostenuto in maniera decisa dalle istituzioni locali come elemento di riequilibrio di un sistema che più che federalista si trova al momento in uno stato di regionalismo diseguale.
È chiaro che il problema, al di là dei periodici piani sanitari e delle riforme orientate solo alla riorganizzazione tecnica, sia politico. Nella sostanza gli interrogativi posti riguardano l’esistenza stessa della sanità pubblica. Se davvero vogliamo garantire un sistema di tutela universale occorre ripensarne le forme alla luce delle trasformazioni demografiche e strutturali in atto nella nostra società. Un sistema sanitario perennemente sull’orlo del fallimento, nel quale immettere fondi conservandone la struttura, serve solo a perpetuare l’esistenza un sistema iniquo, nel quale una parte cospicua delle spese viene sostenuta dalle famiglie, con la produzione di ovvie disparità di accesso ai servizi a seconda del reddito, trasformando i cittadini in utenti la cui unica partecipazione alla sanità pubblica è quella dei clienti che mettono mano alla tasca, senza nemmeno la ragione che i commercianti, invece, al cliente riconoscono sempre. (antonio bove)
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