Ho conosciuto Mario Paciolla a Napoli, durante gli anni del movimento studentesco dell’Onda, tra il 2008 e il 2010. Abbiamo chiacchierato qualche volta, ho partecipato a un ciclo di cineforum da lui organizzato all’università e abbiamo, in un paio di occasioni, fatto volantinaggio insieme nel cortile di Santa Maria Porta Coeli, il palazzo dell’Orientale a via Duomo che frequentava per i suoi studi. Poi ci siamo laureati e non ci siamo mai più visti, come accaduto con tante persone conosciute in quegli anni. Mario era un ragazzo vitale e allegro ma estremamente preciso, molto pratico e “quadrato”. Mi ritrovo nella descrizione che ne fa sua madre quando mi dice che, dopo la sua morte, hanno ritrovato nella stanza in cui dormiva una valigia che «non poteva non essere stata fatta da lui, per come era preparata in ogni dettaglio».
Mario è morto il 15 luglio di tre anni fa a San Vicente del Caguan, in circostanze oscure. Per l’Onu – organizzazione a cui era legato da un contratto a tempo determinato, dopo aver fatto varie esperienze come cooperante in giro per il mondo – il suo è stato un suicidio. In Italia è in corso un processo per accertare la verità, ma il 19 ottobre 2022, un mese dopo l’archiviazione avvenuta in Colombia, anche la procura di Roma ha chiesto l’archiviazione del procedimento sulla sua morte. Un dato curioso è che le due archiviazioni siano avvenute con una certa celerità mentre i due nuovi governi, della Colombia e dell’Italia, erano prossimi all’insediamento ma non ancora in carica, per cui di fatto non vi erano ministri degli esteri su cui poter fare pressione per chiedere maggiore attenzione. A questa richiesta di archiviazione, i legali della parte civile, ovvero la famiglia di Mario, hanno presentato opposizione.
Incontro Anna, la mamma di Mario, una decina di giorni prima dell’anniversario della sua morte. Ci vediamo nel parchetto della stazione della metro di Montedonzelli, non lontano da quella che è stata la casa di Mario, e dove una targa apposta dal comune di Napoli lo ricorda. Il parco è spoglio, pieno di rovi e vegetazione secca, il sole batte inclemente. Non è un luogo piacevole, ma Anna ci viene spesso, perché qui suo figlio veniva a giocare a basket e il rumore del pallone sull’asfalto, per opera dei ragazzi che qui giocano tutto il pomeriggio, le ricorda il suo, di ragazzo.
La morte di Mario, secondo indagini fatte dal giornale El Espectador e dalla sua amica giornalista Claudia Julieta Duque, potrebbe essere legata a un drammatico avvenimento che ha avuto luogo in Colombia nell’agosto 2019, ovvero un bombardamento da parte dell’esercito colombiano all’accampamento di Rogelio Bolivar Cordova, comandante di una cellula di dissidenti delle Farc, che non aveva accettato il disarmo stabilito dall’accordo di pace tra il governo e l’organizzazione guerrigliera comunista. Nei mesi successivi, Mario aveva collaborato al dossier che aveva portato alla luce la morte di sette minorenni durante l’attacco, circostanza nascosta in una prima fase dal governo colombiano, e che aveva causato le dimissioni del ministro della difesa Botero. “La vicenda – racconterà poi anche Rosita Rijtano, del giornale on line La via libera – avrebbe generato delle tensioni anche all’interno delle stesse Nazioni Unite, tra chi festeggiava la caduta del ministro e chi temeva possibili ritorsioni da parte delle forze armate colombiane. Inoltre, a informare dei fatti il senatore Roy Barreras, che ha poi denunciato il massacro, sarebbe stato il responsabile Onu regionale, Raul Rosende: una decisione non concordata con Ruiz Massieu, capo di tutte le missioni di verifica dell’Onu in Colombia, a causa della sua presunta vicinanza con il governo di Ivan Duque Marquez”.
Torniamo ai fatti. Il 15 luglio 2020 il cadavere di Mario viene ritrovato nel suo appartamento di San Vicente del Caguan. Dal collo è legato a un lenzuolo, ma sul suo corpo ci sono tagli e sangue. A ritrovare il corpo è il responsabile della sicurezza della missione a cui partecipava Mario, Christian Leonardo Thompson, dirigente (promosso poi a capo del Centro operazioni di sicurezza dell’organizzazione) che figura tra i denunciati per depistaggio dalla famiglia di Mario, insieme a un altro collega e a quattro poliziotti colombiani. Il comportamento di Thompson in quelle ore è piuttosto strano. In primo luogo perché, nonostante avesse un ruolo ben definito come responsabile della sicurezza, non è il primo a entrare nella stanza di Mario, ma fa entrare un’altra sua amica e collega, che sarà quindi la prima a vedere il corpo senza vita. Questa ragazza, dopo aver ricevuto dall’Onu l’immunità diplomatica, così come tutte le altre persone coinvolte nel caso, sparisce letteralmente quando viene cercata dagli avvocati e dalla famiglia di Paciolla, arrivando persino a cancellarsi dai social network.
Una volta dentro, Thompson si trattiene circa mezz’ora nella stanza, prima dell’arrivo della polizia. La denuncia dei genitori di Mario spiega che Thompson “tiene le chiavi dell’appartamento in suo possesso, mantiene il controllo dell’accesso alla casa, e lo fa fino a tre giorni dopo, nonostante gli fosse stato chiesto di lasciare il luogo”. Nella stanza ci sono oggetti con sopra campioni biologici che Thompson fotografa, ma che non vengono acquisiti nel modo appropriato dai poliziotti sul posto. Allo stesso tempo, “il materasso e altri oggetti con liquido che sembrava sangue sono stati trasferiti in un veicolo ufficiale Onu fino a una discarica, dove sono stati fatti sparire di nascosto”. Oltre alle sparizioni, Thompson avrebbe lavato accuratamente l’appartamento e avrebbe prelevato le agende e i quaderni di Mario, mai più ritrovati.
Gli elementi oscuri di questa vicenda, tuttavia, non sono finiti. Il giorno prima di morire, dopo aver raccontato ai genitori di “problemi abbastanza seri”, per cui sente l’esigenza di allontanarsi dalla Colombia, Mario fa un biglietto, senza nemmeno chiedere all’Onu che gli venga rimborsato. Siamo in piena pandemia, però, e deve avvertire le Nazioni Unite, perché ha bisogno del rilascio di alcuni documenti per viaggiare su un volo umanitario. L’Onu glieli rilascia, e Mario comunica all’ambasciata che il giorno successivo prenderà un volo per Parigi. «Mi vogliono fregare, mi sono ficcato in un guaio», confida alla madre. Passano poche ore tra il momento in cui paga il biglietto per allontanarsi dalla Colombia e quello della sua morte.
Inquietanti sono anche le modalità con cui la notizia della morte di Mario arriva in Italia e il modo in cui viene gestito il rimpatrio della salma. I familiari di Mario, infatti, non vengono informati di persona da un funzionario della Farnesina. Ricevono invece una telefonata da una legale dell’Onu, una donna italiana che con poche parole gli dice che loro figlio è morto; gli chiede inoltre “se intendono chiedere o meno la restituzione della salma”, scatenando la loro ira. «Mezz’ora dopo – racconta Anna – sui social network compariva già la notizia, mentre al momento delle prime telefonate che abbiamo fatto alla Farnesina e all’ambasciatore, nessuno tra loro era stato informato».
Il feretro giunge a Roma il 24 luglio, nove giorni dopo la morte (all’arrivo dell’aereo si presenta anche il ministro Luigi Di Maio, che prometterà tempi celeri nell’accertamento della verità, ma che non sembrerà poi troppo attento agli sviluppi della vicenda). Qualcuno, nelle ore precedenti, aveva però chiamato l’agenzia incaricata del trasporto chiedendo che il feretro venisse portato immediatamente a Napoli, probabilmente nel tentativo – sventato grazie alla scaltrezza del titolare dell’azienda – di non far effettuare l’autopsia dalla procura di Roma, lasciando l’incombenza a un perito di parte, e quindi maggiormente contestabile.
Anche sull’autopsia c’è molto da dire. La prima viene fatta in Colombia da un personaggio abbastanza ambiguo, tale dottor Carlos Andres Gonzales Idrobo (alla presenza non prevista di un medico dell’Onu) e dà un contributo rilevante all’archiviazione del caso. Dall’autopsia italiana, però, emergeranno alcuni elementi gravi, come il fatto che le ferite sui polsi presentino “segni di reazione vitale”, aprendo la possibilità che possano essere state inflitte quando Paciolla era in uno stato agonizzante. “Questa seconda autopsia – scrive ancora Rosita Rijtano – è stata svolta in condizioni estremamente difficili, perché prima che il corpo arrivasse a Roma, il materiale era stato gestito male: mancavano documentazione fotografica, dettagli, e il solco sul collo era stato descritto in modo impreciso; la precisione è rilevante, perché dal tipo di pressione sul collo è possibile ricostruire se c’è stata impiccagione suicida oppure strangolamento omicida. Dunque in queste condizioni così controverse, l’opera degli scienziati italiani è stata minata alle basi, rendendo più complesso divulgare un esito assolutamente certo”.
«Nelle prossime settimane, o forse mesi, sarà il gip di Roma a decidere se archiviare l’inchiesta. Noi siamo moderatamente ottimisti, perché gli elementi contro l’archiviazione sono veramente clamorosi», mi dice la mamma di Mario, invitandomi alla commemorazione del figlio prevista per il 15 luglio (ore 19:30) all’ex ospedale militare dei Quartieri Spagnoli.
Prima di lasciarci, Anna mi fa ascoltare uno degli ultimi audio che ha inviato suo figlio a un amico messicano, prima della morte. Sebbene alcune testimonianze acquisite agli atti asseriscano che Mario fosse in una situazione di depressione, da tempo vicino al burnout, la sua voce sembra quella di un ragazzo sereno, che scherza con l’amico e commenta la vittoria della Coppa Italia da parte del Napoli, e la prestazione del calciatore messicano Lozano. «Fammi trovare in frigo il limoncello e i pomodorini per le freselle», aveva scherzato invece con la mamma, in una delle loro ultime conversazioni. (riccardo rosa)
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