Il giornalista e attivista marocchino Omar Radi era già stato arrestato lo scorso dicembre per un tweet contro la repressione al leader della rivolta dell’Hirak (ne abbiamo parlato qui). Ora è di nuovo in carcere, stavolta accusato di spionaggio e di stupro. Il suo caso mostra come la repressione della dissidenza in Marocco si appropria anche rivendicazioni indiscutibili come la lotta alla violenza di genere, frammentando il fronte delle opposizioni. Come spiegano Rachida El Azzouzi e Rosa Moussaoui in questo articolo di Médiapart, il più completo finora, il suo caso è diventato una “linea rossa” con cui il monarca marocchino e il suo entourage esigono dimostrazioni di lealtà dai sudditi, punendo duramente chi si rifiuta. Abbiamo tradotto e ridotto l’articolo per renderlo più comprensibile al pubblico italiano.
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Il 22 settembre, Omar Radi, uno dei giornalisti d’investigazione più in vista e una delle rare voci critiche nei media, è comparso davanti alla giustizia. Il caso ha fatto molto scalpore in Marocco, generando confusione nei circuiti militanti e nelle redazioni. Divide cuori e coscienze tra due lotte cruciali: quella contro le violenze sessuali e sessiste, e quella contro la repressione delle voci e delle penne libere. Le accuse a cui deve rispondere Radi non sono separate: “attacco alla sicurezza esterna dello stato […], attacco alla sicurezza interna dello stato […], attacco al pudore con violenze”, stupro, infrazione del Codice generale delle imposte marocchino ed evasione fiscale.
Le vicende risalgono a quest’estate. Il 30 luglio e poi il 3 agosto, sulle colonne di AtlasInfo, sito basato in Francia che si occupa dell’attualità del Marocco e del Maghreb, la giovane freelance Hafsa Boutahar, impiegata al sito di investigazione giornalistica Le Desk, ha accusato il giornalista e militante dei diritti umani di averla violentata la notte tra il 12 e il 13 luglio 2020 dopo una cena a casa dei loro direttori. Ma Omar Radi, trentaquattro anni, è nel mirino della monarchia da alcuni anni, per le sue prese di posizione critiche, le sue attività politiche, le sue inchieste sull’economia della rendita, la corruzione, il saccheggio delle terre, la collusione tra il Palazzo e gli affaristi, la repressione dei movimenti sociali nelle regioni periferiche abbandonate dallo stato, come il Rif o l’oriente del paese. Il giornalista era già stato incarcerato il 26 dicembre 2019 per un tweet che criticava i magistrati che avevano confermato in appello la condanna a pene durissime per i portavoce del sollevamento popolare del Rif; ma era stato liberato alcuni giorni dopo grazie a un’inedita mobilitazione nazionale e internazionale. Avrebbe dovuto scontare una pena di quattro mesi con la condizionale.
Successivamente, un rapporto di Amnesty International ha rivelato che il suo telefono era sorvegliato con il software Pegasus dell’azienda israeliana NSO, che l’organizzazione sostiene sia usato dalle autorità marocchine. Queste rivelazioni sono state riprese da una quindicina di media internazionali, coordinati dal collettivo Forbidden Stories, e hanno fatto scandalo. Colte in flagrante, le autorità rilanciano: il 25 giugno il procuratore generale apre un’inchiesta alla Corte di Casablanca sul “presunto coinvolgimento del giornalista nell’ottenimento di finanziamenti stranieri in collaborazione con alcuni servizi segreti”. Quando a tutto questo si aggiunge l’accusa di stupro, il 23 luglio, Omar Radi era già stato presentato dal potere come una spia, e aveva già risposto a una ventina di convocazioni della Brigata Nazionale della Polizia Giudiziaria (BNPJ).
Tra il 7 giugno e il 15 settembre, l’ONG Human Rights Watch ha rilevato più di centrotrenta articoli che attaccano Omar Radi, la sua famiglia e i suoi difensori sui siti di informazione marocchini Chouf TV, BarlamaneeLe360, nelle versioni araba e francese. “Questi articoli contengono spesso insulti volgari e informazioni personali”, riporta l’ONG, che ha pubblicato un rapporto in cui denuncia “accuse scarsamente verificate”. […] Il 5 luglio, un cameraman del canale Chouf TV – un’industria scandalistica con un centinaio di dipendenti in tutto il paese – aspetta per tutta la sera l’uscita del giornalista da un bar del centro di Casablanca dove si trovava con il suo collega Imad Stitou. Quando i due giornalisti lasciano il luogo verso le 23, lui comincia a filmarli. Loro lo riconoscono: è il cameraman che perseguita Omar Radi, che lo ha ripreso a ognuna delle sue convocazioni all’entrata e all’uscita dei locali della polizia giudiziaria, in luoghi dove è assolutamente proibito filmare. Cominciano a filmarlo a loro volta; l’uomo grida all’aggressione. Meno di un minuto dopo, un’auto della polizia che stazionava nella strada accanto, interviene per arrestare i due giornalisti. Capiscono allora di essere caduti in un’imboscata sotto gli obiettivi di Chouf TV. Saranno liberati il giorno dopo nel pomeriggio, con una campagna mediatica basata sulle riprese. Il cameraman non viene arrestato, mentre loro sono accusati di “ebbrezza manifesta sulla strada pubblica”, violenze e insulti, e di aver filmato una persona senza autorizzazione. Omar è chiamato “spia”: “Guardate qua, è Omar Radi, è completamente andato. Guardate, escono dal bar ubriachi. E viene ad accusarmi di essere un ladro, perché è sbronzo!”, urla il cameraman di Chouf TV.
Ma cosa è successo invece nella notte tra il 12 e il 13 luglio? In una mail indirizzata a una cerchia di amici subito dopo aver saputo della denuncia per stupro da parte di Hafsa Boutahar, Omar Radi si dice disarmato: “So che le mie parole presto non varranno più niente rispetto all’attualità, ma giuro sul mio onore che non ho fatto niente di male, né senza consenso”. I due giovani si sono incontrati per la prima volta agli inizi di gennaio per festeggiare la liberazione del giornalista. Dopo l’imposizione del rigido confinamento per la pandemia di Covid-19, i giornalisti de Le Desk avevano preso l’abitudine di ritrovarsi nella villa dei direttori del sito di notizie, il cui scantinato è trasformato in ufficio. Hafsa Boutahar era spesso presente e si univa alle conversazioni anche quando si parlava di temi caldi come l’inchiesta giudiziaria aperta contro Omar Radi per spionaggio. Alcuni già non si fidavano: la giornalista aveva lavorato anche per Barlamane, una delle macchine del fango del governo marocchino, che ha come personaggio influente un ex incaricato della comunicazione del ministero dell’interno. Omar Radi non condivide il sospetto degli amici: nella bufera politico-giudiziaria la giovane gli dimostra totale solidarietà, e si rende indispensabile a Le Desk, sempre disponibile per una spesa, un aiuto; tra loro inizia un flirt via messaggi. L’8 luglio vengono fotografati abbracciati davanti alla villa da un altro membro della squadra. Quattro giorni dopo tutto il gruppo cena insieme e conclude una contro-inchiesta sulle accuse di spionaggio, e rimangono a dormire nella villa.
Il 19 agosto, con il titolo “Omar Radi accusato di stupro, le nuove rivelazioni-choc dell’accusatrice”, Le360 le dà la parola, con due link ad altri articoli che presentano Omar Radi come una spia del MI6. Hafsa Boutahar ammette di avere proposto a Omar, che descrive come ubriaco, di raggiungerla: “Pensavo che volesse discutere, tutto qua – spiega –. Si è gettato su di me. (…) Ho provato a parlargli, a dissuaderlo. Mi dicevo che era impossibile che tentasse qualcosa del genere con tutto ciò che gli stava accadendo, doveva essere pazzo per osarlo, nel momento in cui aveva la polizia addosso. Mi sono detta che non era nel suo stato normale, che aveva bevuto troppo…. È stato brutale, mi annusava come un animale selvaggio che ha conquistato una preda”.
Secondo Imad Stitou, l’unico testimone, Omar Radi invece ha raggiunto Hafsa Boutahar nel suo divano verso le due del mattino. Ha assicurato ai gendarmi di aver sentito soltanto due adulti che facevano l’amore, e che si sono promessi, prima che Omar tornasse nel suo letto, di rivedersi più tardi in altre circostanze. Secondo Souad Brahma, avvocatessa di Radi e membro dell’Associazione marocchina delle donne progressiste, “in genere, persino con prove solide e conferme mediche, abbiamo enormi difficoltà a far registrare le accuse per violenze sessuali”. In questo caso, nessun rapporto medico nei giorni successivi al presunto stupro è stato aggiunto al fascicolo di inchiesta.
IL MAKHZEN SI APPROPRIA DELLE LOTTE FEMMINISTE E LGBT
Per chi l’ha incrociato da vicino o da lontano, l’arresto di Omar Radi con questa denuncia è un duro colpo. “Omar è circondato di femministe. Vuole sempre sapere come comportarsi al meglio con le donne”, sostiene una militante che lo conosce da anni. “Anche quando consuma alcool, resta sempre molto corretto. Quando una donna gli piace, fa sempre molta attenzione a non risultare invadente. A volte questa cosa lo blocca”. Un giovane giornalista che ha frequentato le sue stesse sfere militanti e professionali descrive un uomo discreto nella sua vita privata, che mai, in compagnia maschile, si lascia andare al minimo scarto verbale, al minimo scherzo salace o sessista. Nelle file della sinistra marocchina, non tutti godono di questa reputazione. Nell’estate del 2018, nello spirito del #Metoo, alcune militanti lanciano su Facebook un gruppo segreto dal titolo evocativo: “I nostri compagni sessisti”. La parola si libera. Un centinaio di nomi sono citati per fatti di stupro, molestia o aggressione sessuale, per violenze fisiche, gesti fuori luogo o proposte sessiste. In questo doloroso maxi-processo, il nome di Omar Radi non è mai chiamato in causa, nemmeno una volta, secondo molte militanti interrogate da Médiapart e L’Humanité. Nonostante ciò, i suoi amici si rifiutano di incolpare Hafsa Boutahar: “Dire che mente non ci appartiene. La parola di una donna è là e per principio non posso rigettarla, metterla in discussione pubblicamente – confida una di loro –. Il nemico non è l’accusatrice. È la strumentalizzazione della parola femminile per far tacere dei giornalisti, degli oppositori. È il Makhzen che si appropria delle nostre lotte femministe e Lgbt per rivoltarle contro di noi, distruggere i militanti di sinistra”.
Omar Radi non è il primo giornalista indipendente nel mirino del potere a essere accusato di stupro. Il 10 novembre 2018, al termine di un processo giudicato “non equo” dal gruppo di lavoro dell’ONU sulla detenzione arbitraria, che gettò in pasto al pubblico la sua vita privata, il direttore del prestigioso quotidiano arabofono Akhbar Ar-Youm, Taoufik Bouachrine, è stato condannato a dodici anni di prigione per “tratta di esseri umani, abuso di potere a fini sessuali, stupro e tentativo di stupro”. Un anno dopo, la sua pena si è aggravata, in appello, a quindici anni di prigione. Il 22 maggio scorso, il capo redattore della stessa testata, Souleiman Raissouni, conosciuto per i suoi editoriali critici e impietosi, è stato fermato nel suo domicilio di Casablanca, sulla base di accuse pubblicate su Facebook da un militante per i diritti delle persone Lgbt. Da allora è mantenuto in detenzione preventiva in una cella della prigione di Oukacha. Sarà giudicato il 30 settembre. Sua nipote, Hajar Raissouni, che lavorava per lo stesso giornale, durante l’autunno scorso è passata anche lei per la prigione. Il 30 settembre 2019, sulla base di rapporti medici truccati, la giustizia marocchina l’aveva condannata a un anno di prigione per “aborto illegale, relazioni sessuali illegali, e dissolutezza”. Il suo fidanzato sudanese, fermato con lei all’uscita del consulto ginecologico, ha subito la stessa pena, mentre il medico che l’aveva seguita ha preso due anni di prigione, con l’aggiunta del divieto di esercitare il suo mestiere per due anni. Gli altri membri del team medico sono stati condannati a otto mesi e a un anno di prigione con la condizionale.
In seguito allo scandalo suscitato in Marocco e all’estero per la sua incarcerazione, Hajar Raissouni è stata infine liberata il 16 ottobre, per grazia reale. Senza che però si sia fermata la persecuzione della sua famiglia e dei suoi amici. Questa talentuosa giornalista di ventinove anni ha finito per rendere le armi, decidendo di lasciare il Marocco. Così come una delle “accusatrici” di Taoufik Bouachrine, Afaf Bernani, che il 26 agosto scorso, in un articolo sul Washington Post esortava il regime marocchino a “smettere di utilizzare accuse di aggressione sessuale per ridurre al silenzio gli oppositori”.
Nel dossier Bouachrine, sulle quindici denuncianti inizialmente riportate dalla stampa marocchina, in otto hanno rifiutato di testimoniare contro di lui, o si sono apertamente ritirate. Al momento del processo a porte chiuse, durato vari mesi, è stato necessario emettere dei mandati di arresto per costringere alcune di loro a presentarsi alla sbarra. Dei testimoni che sono ritornati sulle loro dichiarazioni sono finiti dietro le sbarre. Una denunciante che ha rifiutato di presentarsi in tribunale è stata trovata nascosta, terrorizzata, nell’auto di un testimone. Afaf Bernani è stata lei stessa processata nella primavera 2018, accusata di aver “falsificato il suo rapporto”. Verdetto: sei mesi di prigione.
“DA QUALCHE ANNO SONO COMPARSI NUOVI METODI”
La strumentalizzazione della vita privata, le accuse di stupro o di aggressione sessuale contro giornalisti e oppositori non sono una novità nell’arsenale repressivo del regime. Il giornalista Ali Lmrabet, oggi esiliato in Spagna, ne conserva un ricordo amaro. Nel 2000 è stata sporta contro di lui un’accusa per uno stupro che avrebbe commesso a Casablanca in un momento in cui si trovava a Marrakech, a duecento km da lì. L’accusatrice, una ex giornalista della sua rivista Demain, confessò che le avevano promesso mari e monti. Metodi antichi, quindi, ma in altri tempi utilizzati a dosi omeopatiche. “I giornalisti indipendenti e la stampa libera subiscono una repressione continua da parte del potere marocchino. I metodi utilizzati per questo fine cambiano secondo i contesti politici – dice Khadija Ryadi, dell’Associazione marocchina di difesa dei diritti umani –. […] Dopo l’apertura politica che il Marocco ha conosciuto a partire dagli anni Novanta, le autorità hanno utilizzato, oltre agli arresti e ai processi montati ad arte, dei metodi di asfissia finanziaria dei giornali e delle riviste che non piacciono al potere. Da qualche anno sono comparsi nuovi metodi. Si tratta di accuse che hanno relazione con i costumi”. Accuse di stupro, di tratta di esseri umani, adulterio, aborto illegale o relazioni sessuali fuori dal matrimonio, vietate dalla legge marocchina.
Ahmed Benchemsi è stato a lungo uno dei volti della stampa libera in Marocco. Cofondatore della rivista Telquel e della sua versione arabofona Nichane, ha finito per esiliarsi negli Stati Uniti nel 2010, esausto per le incessanti pressioni del potere. Oggi lavora per Human Rights Watch: “Ai miei tempi era meno perverso, io ero incriminato per mancanza di rispetto al re, il terreno era chiaro, era politico. Ti si parlava davanti a un tribunale. Oggi non è più così. Ora non dicono: Omar Radi manca di rispetto al re, alle istituzioni. Ora dicono: ha fatto la spia, ha stuprato”.
Questi metodi non riguardano solo i giornalisti. Degli oppositori sono anche oggetto di queste pratiche che puntano a demolire l’immagine, la reputazione, il percorso politico attraverso campagne di diffamazione, insulti e umiliazione sui media vicini al potere e sui social network. Molte figure del movimento islamico sono state eliminate da un giorno all’altro dalla scena politica. “I processi politici di altri tempi davano prestigio agli oppositori, ne facevano degli eroi, mobilitavano l’opinione attorno a loro. Con le primavere arabe e la crescita dei social network, dei giovani oppositori hanno acquisito una legittimità, una credibilità. Definirli come traditori, ladri, stupratori è il modo migliore per ridurli al silenzio”, insiste lo storico Maati Monjib, uno dei fondatori dell’Associazione per il giornalismo di investigazione, che dal 2015 aspetta di essere processato per “attacco alla sicurezza interna dello stato”.
Strategia impeccabile: in una società segnata dai conservatorismi tradizionali o religiosi, una reputazione si danneggia come il vetro. Attorno alle vittime infangate, si fa il vuoto, la solidarietà si affloscia. Sul fondo della balcanizzazione dei centri di potere, con i servizi di sicurezza in competizione, dai margini di manovra smisurati, questo metodo tende a imporsi come il più efficace nell’arsenale repressivo dispiegato contro le ultime voci libere. E il regime sa perfettamente adattarsi agli slanci politici, come il rinnovamento femminista che ha preso forma con l’onda #MeToo.
Subito dopo l’arresto di Omar Radi per stupro, delle femministe marocchine mettevano l’accento sul tempismo di questa nuova accusa. Ma sotto anonimato, per paura di rappresaglie.
“Noi militiamo perché la parola delle donne sia ascoltata, perché le sanzioni più severe siano inflitte ai predatori sessuali. Allo stesso tempo, denunciamo fermamente ogni strumentalizzazione delle violenze fatte contro le donne a fini politici e securitari. Denunciare lo stupro, le violenze sessuali e la strumentalizzazione dei corpi delle donne passa anche per il rifiuto di vederle utilizzate e strumentalizzate negli affari politici. Le accuse di stupro non devono essere il fischio finale”, scrivevano in un testo pubblicato sui social network. Una delle femministe dietro questo testo è Laila Slassi, cofondatrice del movimento Masaktach, “Io non starò zitta”, il MeToo marocchino nato nel 2018 dopo l’affare Khadija – la ragazza di diciassette anni rapita, torturata, stuprata e tatuata di forza da una decina di uomini nella comune rurale di Oulad Ayach, nel Medio Atlante. Ha pagato caro le sue prese di posizione nell’affare Omar Radi: Le360 la definisce “usurpatrice del titolo di avvocato che cospira contro lo stato, approfittandone”. […]
In un video registrato prima dell’incarcerazione, Omar Radi parla, riguardo all’inchiesta giudiziaria aperta contro di lui per spionaggio, di una “vendetta di stato”: “I giornalisti più critici verso le autorità, il suo funzionamento e il suo approccio securitario in Marocco sono i più esposti alle condanne giudiziarie, gli arresti e le intimidazioni. Il potere non si accontenta solamente di imprigionarli e diffamarli; fa anche in modo di dividere le persone che li sostengono perché non ci siano movimenti di solidarietà contro di loro. Il giornalista si dice sicuro che “lo stato cerca un fascicolo qualsiasi, una ragione qualsiasi” per incolparlo.
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