“È qui, a Marsiglia, in Francia, che è stato assassinato. Ed è qui che bisogna rendergli omaggio. Usciamo allo scoperto. Accompagnamo il suo corpo in corteo, dal vostro appartamento fin giù, al porto”. Queste parole di Béchir, personaggio del romanzo noir Marsiglia ’73 (2020, Sellerio 2022) di Dominique Manotti, segnano la sequenza di violenze che nel 1973 porta all’omicidio di decine di lavoratori immigrati algerini. Il commissario Daquin, accompagnato dagli ispettori Grimbert e Delmas, indaga sulla fiammata razzista che insanguina le strade della città. Sbrogliare i fili dell’indagine, connettere i punti: i cicli di scioperi degli anni Settanta, l’evoluzione delle politiche migratorie durante il governo Pompidou, le ombre lunghe della colonizzazione algerina dopo l’indipendenza.
Specialista di storia economica del diciannovesimo secolo, insegnante al Centro Sperimentale di Vincennes e all’Università Paris 8, Manotti è stata anche militante politica e sindacalista. Inizialmente nell’Union des étudiants communistes, Manotti rompe col PCF nel corso degli anni Sessanta e tesse legami con il gruppo del Manifesto. Gli anni Settanta segnano un periodo di intensa attività sindacale nella CFDT, in ragione della sua maggiore permeabilità ai movimenti e della sua prospettiva autogestionnaire. L’elezione di Mitterand nel 1981 – la svolta politica neoliberale, la passività sindacale, il culto del denaro – segnano una disillusione e un’ulteriore rottura. La scrittura romanzesca di Manotti prende forma da questa battuta d’arresto, personale e generazionale, per elaborarne in chiave narrativa alcuni momenti. Il primo romanzo, Sombre Sentier (1995, Sellerio 2016), è costruito proprio intorno allo sciopero di lavoratori turchi senza documenti nel 1980. Uno sciopero che in sei mesi, su iniziativa di militanti politici turchi immigrati e con il supporto della CFDT, porterà alla regolarizzazione di undicimila lavoratori allora impiegati negli innumerevoli atelier informali del secondo arrondissement di Parigi, base della filiera del prêt à porter.
La tensione militante e la ricerca documentaria saranno alla base dei romanzi seguenti, mescolando fonti di letteratura grigia con lo stile diretto e nervoso mutuato da autori dell’hardboiled americano come James Ellroy, Dashiel Hammet e Ed Mc Bain. Gli anni Novanta sono d’altronde aperti da classici come Città di quarzo di Mike Davis, nei quali le ampie ristrutturazioni del processo capitalistico si riflettono nelle frontiere che organizzano la stratificazione sociale urbana. Dallo sguardo narrativo di Manotti sulla realtà sociologica e politica emerge il personaggio del commissario Théo Daquin, la cui omosessualità piega parzialmente alcuni stereotipi del noir americano mentre la formazione giuridica non gli impedisce di adottare le pratiche poliziesche, che sempre eccedono i margini del diritto. Attorno alla figura di Daquin, Manotti costruisce un primo ciclo di romanzi che hanno nel 1973 un momento chiave e nella città di Marsiglia uno snodo fondamentale. Dall’investimento dei capitali della “French connection” nello shock petrolifero e la nascita dei trader (Or Noir, 2015, Sellerio 2015) alla sequenza di omicidi razzisti di lavoratori nordafricani (Marseille ’73), Marsiglia è il crocevia mediterraneo in cui il commissario deve sbrogliare l’intreccio criminale di capitale finanziario, spari a bruciapelo e cacce all’uomo nostalgiche dell’Algeria francese.
Numerosi ritagli di giornale aprono i capitoli di Marseille ’73. Mentre parole d’ordine come “soglia di tolleranza” e “immigrazione selvaggia” occupano le prime pagine, si definisce a livello istituzionale una fase di restrizione della libertà di circolazione. La figura moderna del “clandestino” fa il suo ingresso sulla scena politica, scandita dalle circolari Marcelin-Fontanet e la sospensione dell’emigrazione algerina su iniziativa del presidente Boumédiène. In questo tornante della storia delle politiche migratorie si iscrive la violenza razzista che accompagna la fine della guerra d’Algeria, prolungandola sul territorio metropolitano. Nella Marsiglia degli anni Sessanta e Settanta, due gruppi si affrontano. Da un lato, i lavoratori immigrati algerini la cui presenza diviene visibile in diversi quartieri (Belsunce, l’Estaque, Saint-Barthélemy) e nelle bidonville come la Calade. Dall’altro lato, la nebulosa di coloni rimpatriati, harkis, simpatizzanti dell’OAS e del gruppo neofascista Ordre Nouveau.
Che la guerra non possa dirsi conclusa è d’altronde evidente dalla circolazione di termini come le ratonnades – cacce all’uomo, spedizioni punitive, violenze più o meno organizzate ma tutte volte a ripristinare in metropoli la gerarchia socio-razziale della colonia. Se questa specifica “caccia” non è unicamente marsigliese o anti-algerina (si pensi alla caccia ai lavoratori italiani nelle saline di Aigues-Mortes a fine Ottocento, o contro gli algerini di Nanterre nell’ottobre 1961), essa trova nella sequenza del 1973 un momento di cristallizzazione. L’assassinio del tramviere Guerlache per mano di un uomo malato di mente di origine algerina riattiva un odio mai sopito e apre una “vampata razzista” che definisce un periodo storico. Si tratta di una sequenza drammatica che, spingendosi al di là del periodo scelto dal romanzo di Manotti, culminerà il 14 dicembre 1973 nell’attentato al plastico al Consolato algerino di Marsiglia, rivendicato dal Gruppo Charle Martel.
Seguendo Daquin e i suoi due ispettori, il lettore si immerge nel groviglio del corpo sociale marsigliese incontrando personaggi come il Gros Marcel, che dirige informalmente operazioni della polizia urbana dal bar chiamato “il garage”. Le informazioni che passano per il garage pressuppongono una rete anch’essa informale, fatta di mormorii che circolano tra i banconi e nei caffè. Il bar La Foudre, gestito da un portoghese salazarista e brulicante di coloni rimpatriati, bacino di reclutamento dell’eversione nera di Ordre Nouveau, è uno dei punti di partenza delle spedizioni punitive nei quartieri popolari. Lo spazio sociale di Marsiglia è però anche uno spazio di lotte e di autorganizzazione. Vi incontriamo il pastore protestante Berthier Perregaux, animatore della sezione marsigliese della Cimade, i cui spazi hanno accolto esperienze della sinistra extraparlamentare e immigrata tra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta. Incontriamo sopratutto il Movimento dei Lavoratori Arabi (MTA): esperienza politica nata dai Comitati Palestina, prossima alla Gauche Proletarienne e animatrice dello sciopero generale contro il razzismo del 3 Settembre 1973. Nelle pagine di Manotti la rappresentazione dell’MTA è affidata al personaggio di Béchir, militante e organizzatore deagli scioperi nei cantieri navali della Ciotat e del corteo che accompagna il feretro del giovane Malek (doppio narrativo di Ladj Yunes, ucciso da un brigadiere la notte del corteo funebre di Guerlache). Si tratta di una storia ricca, all’origine dell’antirazzismo politico che rivendicava una propria autonomia dai sindacati e dalla Amicale des Algériens, emanazione dello Stato-FLN, di cui contesta il monopolio dell’eredità della guerra anticoloniale. Conflitti interni tra apparati di polizia e inseguimenti notturni si aprono su momenti distensivi. Una cucina mediterranea i cui tratti potrebbero ricordare alcune pagine di Izzo. Il lettore rilascia i nervi, riposa il cervello, guarda il Vecchio Porto dal balcone di Daquin.
A distanza di cinquant’anni dai fatti narrati, mentre Marsiglia attraversa un radicale cambiamento segnato, tra le altre cose, dai processi di gentrificazione, il tema della violenza razzista verso popolazioni provenienti dall’immigrazione resta di drammatica attualità. Basato su una ricca documentazione, Marsiglia ’73 porta il lettore in uno snodo denso: palestra della finanziarizzazione e dei processi di espulsione che domineranno i decenni successivi, e insieme lungo cono d’ombra del passato coloniale, che il presente impedisce di archiviare. (martino sacchi)
Leave a Reply