Foto di Stefano Morrone, salvo i due ritratti di Caterina Morbiato
Appena pochi giorni di tregua e in Messico la terra è tornata a tremare. Dopo il terremoto del 7 settembre scorso – che ha colpito in particolare gli stati meridionali di Oaxaca e Chiapas, provocando gravi danni soprattutto nella cittadina di Juchitán – questa volta la scossa sismica ha investito la zona centrale del paese. All’una e un quarto del pomeriggio (le otto di sera in Italia) di martedì 19 settembre diversi stati messicani – specialmente il Morelos e il Puebla – e Città del Messico sono piombati nel caos.
L’epicentro del sisma, che ha raggiunto 7.1 gradi nella scala Richter, è stato localizzato nei pressi di Axochiapan, nello stato di Morelos, a centoventi chilometri da Città del Messico. Al momento in cui si scrive le morti confermate dalla Protezione civile sarebbero trecentodue: centoquarantadue a Città del Messico, novantasette nello stato di Morelos, quarantatré nel Puebla, tredici nell’Estado de México, sei nel Guerrero e una nell’Oaxaca (aggiornato alle ore 16:00 del 21 settembre, Ndr). Le cifre sono purtroppo in continuo aumento.
La capitale è stata gravemente danneggiata. Durante il terremoto e nelle ore che sono seguite sono crollati una quarantina di edifici, la maggior parte nei quartieri de la Roma e la Condesa e nella zona sud della città, specialmente nella zona di Coyoacan, Villa Coapa e Xochimilco. Alla paura si è aggiunta l’inquietudine per le coincidenze funeste: trentadue anni fa, la mattina del 19 settembre del 1985, un terremoto di 8.1 gradi squassò ampie zone della capitale messicana. In quell’occasione persero la vita almeno diecimila persone. Un disastro smisurato, derivante anche dall’impreparazione delle autorità che risposero con troppa lentezza.
Come nel 1985, anche questa volta la reazione della società civile è stata massiccia, superando di gran lunga l’intervento della Protezione civile. L’organizzazione di soccorritori Topos de Tlatelolco – nata proprio in occasione del terremoto dell’85 da un gruppuscolo di volontari – è entrata immediatamente in azione. Parallelamente, migliaia di volontari hanno iniziato a riversarsi nei punti più danneggiati per aiutare a rimuovere le macerie e coordinare centri di raccolta di alimenti, acqua, medicine, coperte e altri beni di prima necessità.
Uno dei crolli più gravi è avvenuto nel quartiere di Villa Coapa, dove i due edifici della scuola elementare e media Enrique Rebsamen si sono frantumati all’istante. Anche qui i Topos – “talpe” in italiano – si sono intrufolati tra le rovine alla ricerca di bambini e insegnanti. In un tweet pubblicato il 20 settembre, il ministro della pubblica istruzione, Aurelio Nuño, ha confermato la morte di venticinque persone: ventuno bambini e quattro adulti. Si continua però a scavare con la speranza che ci sia ancora qualcuno vivo.
Mentre la solidarietà è palpabile per le strade di Città del Messico, le zone sinistrate degli stati di Morelos e Puebla rischiano di passare in secondo piano. In molti paesini, difficili da raggiungere, gli aiuti sono stati minimi anche se diverse brigate autorganizzate si sono messe in marcia nelle ultime ore. La centralizzazione del pronto intervento e dell’informazione – un tratto tipico di un paese che spesso dimentica di esistere anche al di fuori del territorio della capitale – fa temere che in poco tempo le zone più periferiche vengano abbandonate a loro stesse; un timore che si vive anche nello stato di Oaxaca, uno tra i piú emarginati del paese, dove i danni del terremoto del 7 settembre non sono stati ancora riparati.
È la mattina di mercoledì 20 settembre e Laura Longino Reyes arranca con una marmitta di brodo fumante per la calle Chimalpopoca. Nel baracchino che sta dall’altro lato della strada suo padre trincia la carne e farcisce un taco dietro l’altro. Come molti dei loro vicini, Laura e la sua famiglia hanno iniziato a organizzarsi poco dopo il terremoto. «Stiamo regalando cibo alle persone che sono rimaste senza niente – spiega –. In casi come questi dobbiamo aiutarci l’uno l’altro visto che le autorità non fanno gran cosa… ma ce la possiamo fare anche da soli».
Nel quartiere di Laura, la Colonia Obrera, il terremoto ha fatto crollare una fabbrica tessile e almeno una sessantina di impiegate – ma il numero potrebbe essere maggiore – sono rimaste intrappolate sotto le macerie. Anche durante il terremoto del 19 settembre 1985 molte fabbriche tessili di questo quartiere popolare e artigiano crollarono: gli edifici erano malmessi, da demolire; invece si continuava a lavorarci dentro in condizioni insicure.
Per tutta la notte del 19 i soccorsi sono andati avanti senza sosta: un’infinita catena umana trasportava bottiglie d’acqua, corde, secchi e pale per raccogliere le macerie, mentre decine di volontari aspettavano il loro turno per scavare a mani nude. Per ora almeno trentasette persone sono state recuperate, purtroppo non tutte vive. La mattina dopo le brigate di volontari e volontarie continuano ad arrivare per dare il cambio a chi è rimasto per tutta la notte, ma l’affollamento è minore: sono giunti gli aiuti specializzati e sono intervenute le gru. La paura però non è svanita. «Senti cos’hanno da dire quelle ragazze – dice Laura, indicando un capannello di donne riunite in mezzo alla strada –, le costringono a lavorare anche se non vogliono». Alcune indossano già l’uniforme, altre la tengono ripiegata in mano. Sembrano indecise, preoccupate. Sono lavoratrici della Micmar, un’impresa privata di pulizie che offre il proprio servizio al vicino Tribunale Superiore di Giustizia. Le lavoratrici stanno dibattendo sul da farsi: la loro capa gli ha fatto sapere che se non entrano a lavorare rischiano di non essere pagate per due settimane. «Vogliono farci entrare per forza ma l’edificio è pericolante, ha delle crepe. Se entriamo, con il nostro peso potrebbe cadere – spiega una delle impiegate –. Non possiamo mettere a rischio le nostre vite, abbiamo famiglia. Non è giusto, noi lavoriamo sodo per sette ore al giorno e ci pagano solamente novantotto pesos (circa quattro euro e cinquanta) a giornata».
Arrivate davanti alla sede del tribunale le lavoratrici entrano, una dopo l’altra. Eppure le giornate del 19 e 20 sono state definite dal Consiglio della Magistratura di Città del Messico come “non lavorabili” e nessuno degli altri impiegati si è presentato. A salvaguardarli ci hanno pensato quelli del sindacato dei lavoratori del tribunale, che questa mattina sono venuti a presidiare l’entrata per controllare che non ci fossero irregolarità. Per le dipendenti della Micmar non possiamo far nulla, dicono, dovrebbero sindicalizzarsi anche loro.
Alle 13:14 del 19 settembre la maggior parte degli inquilini del numero 178 della calle Niños Héroes de Chapultepec, non si trovava in casa. Erano andati in comune per deporre una querela contro la decisione del padrone di casa di vendere i garage dello stabile. Gli abitanti erano preoccupati: senza lo spazio dei garage la via per entrare e uscire dagli appartamenti si sarebbe ridotta alla stretta scala a chiocciola che saliva fino alla terrazza. Troppo pericoloso per un palazzo che negli anni era stato appesantito dalla costruzione di balconi, dalla duplicazione dei tre appartamenti originari – ognuno era stato ripartito in due – e dall’aggiunta di un settimo nel perimetro della terrazza. «È dal 1985 che ho un contenzioso con questo edificio – dice Emanuel Jardón Rivera –. Per quindici anni era rimasto disabitato e dovevano abbatterlo, poi nel 2001 l’ha comprato un privato e ci ha fatto una scuola. Le autorità gli avevano dato tutti i permessi per ristrutturarlo, ma i lavori sono stati di facciata: un po’ di pittura nuova e tende colorate». Emanuel sguscia tra i macchinari pesanti e le centinaia di volontari ammassati intorno alle macerie di calle Galicia. Fa la spola tra il cortile della casa di suo figlio – dove è stato improvvisato un punto di raccolta e distribuzione di cibo e medicine – e quello che è rimasto di casa sua. Collassando, il palazzo ha ridotto in poltiglia il soggiorno e la sala de pranzo e ora delle travi puntellano i muri rimasti in piedi. Emanuel vorrebbe entrare e recuperare le cose più importanti, i documenti del contenzioso, per esempio: avviato più di tre decadi fa e rimasto irrisolto insieme a moltissimi altri casi di cattiva edilizia, corruzione e menefreghismo. «Quando è iniziata la scossa molti vicini hanno filmato il palazzo con i loro cellulari. Tutti si aspettavano che cadesse, era inclinato da tempo. Nel 2006 avevo misurato settantacinque centimetri di pendenza – spiega Emanuel con rabbia –. Per fortuna che gli abitanti erano andati a lamentarsi in comune… Pensa te, si sono salvati proprio grazie a questo».
Attorno alle macerie i pugni si alzano verso il cielo: è il segnale che impone il silenzio. Bisogna sentire se arriva qualche lamento, una richiesta d’aiuto di chi è rimasto ancora intrappolato. Per lunghi secondi non si sente fiatare, il tempo sembra sospeso. Poi il vociare riscoppia, si riprende a martellare, a gridare indicazioni: «Corde!, Secchi! Acqua!». Quando si trova un segno di vita gli applausi sono fragorosi.
La sorprendente risposta della società civile commuove ma fa anche pensare che di puro eroismo non si vive. Secondo Alejandro Méndez, membro dei Topos da circa quattordici anni, dalla tragedia del 1985 la tecnologia e i protocolli di prevenzione sono migliorati ma ancora non si può contare su un sistema di intervento realmente efficace. Le carenze istituzionali e sociali messe a nudo dai crolli sono le stesse di trent’anni fa: speculazione edilizia, assenza di misure di sicurezza e di diritti lavorativi, controlli poco rigorosi da parte della Protezione civile, silenzi complici tanto delle autorità come della popolazione. In queste ore non si dormono sonni tranquilli, la paura piú grande è che ci possa essere un’altra forte scossa. Purtroppo però l’attività sismica non si può predire e quindi ci si affida a ogni sorta di scongiuro. L’incuria, la corsa al risparmio in materia di sicurezza, la menzogna confezionata ad hoc per la campagna elettorale di turno, l’impunità, sono invece tutte attività piú che prevedibili. Non c’è bisogno che la terra tremi per metterle a nudo. (caterina morbiato)
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