Sako, ventuno. Konte, ventotto. Sangre, ventiquattro. Si Bi, ventisei. Idrissa, ventuno. Konte, ventisei. Jabi, ventuno. Fofana, ventisette. Bakari, venticinque. Hamada, venti. Sono questi i nomi e le età dei dieci giovani maliani protagonisti dell’espulsione dal Centro di accoglienza straordinaria di Ercolano lo scorso maggio, e della loro esclusione dai percorsi di inserimento spettanti ai profughi a cui è riconosciuto il diritto di asilo.
Sako e gli altri arrivano Italia tra il 2013 e il 2015. Scappano dal Mali nascondendosi, percorrendo il paese su furgoni e altri mezzi improvvisati, attraversando l’Algeria e la Libia, dalla quale si imbarcano per raggiungere la Sicilia. Una volta in Italia rimangono per un mese nei centri di prima accoglienza dell’isola, finché vengono mandati in diversi CAS campani. I CAS sono strutture di accoglienza straordinaria – nate per sopperire alla mancanza di posti in quelle degli enti locali – che dovrebbero ospitare i migranti per un periodo breve, nell’attesa del trasferimento alle strutture di seconda accoglienza. I Centri vengono individuati dalle prefetture, che stipulano convenzioni con le cooperative, le strutture alberghiere, le associazioni che li gestiscono.
La storia dei CAS è fin dall’inizio caratterizzata da una certa confusione normativa e ancor di più dalla continua violazione delle regole che dovrebbero organizzarne il funzionamento. Basti pensare che a oggi non esiste neppure un elenco pubblico di queste strutture e della loro collocazione. Il rapporto InCAStrati, prodotto nel febbraio 2016 da un gruppo di associazioni, evidenzia la mancanza di trasparenza sugli affidamenti, sui finanziamenti e sull’erogazione dei servizi. Inefficiente è anche il sistema dei controlli pubblici, per cui, una volta assegnato l’appalto al privato, diventa difficilissimo (considerando anche le scarse possibilità di denuncia da parte dei migranti) sapere cosa accade nel quotidiano all’interno dei centri. Si tratta di centri che, oltre tutto, soprattutto nell’Italia meridionale, vengono collocati in zone quasi sempre periferiche, in contesti problematici, che costituiscono “uno scenario ideale per l’arruolamento dei migranti nei circuiti del caporalato e della criminalità”. Anche per quanto riguarda il personale i controlli sono inesistenti, concedendo la sopravvivenza per lunghi periodi a strutture in cui opera uno staff impreparato a gestire il fenomeno dell’accoglienza: “In alcuni casi si è riscontrato che gli operatori non conoscono neppure l’inglese – denuncia il rapporto – né risultano avere alcuna preparazione in materia di protezione internazionale”. È il caso dei centri di Sarno (Hotel Fluminia), del CAS di Feroleto (Cosenza), “dove non si tengono corsi di italiano per gli ospiti e non esiste staff, così come nella struttura (poi chiusa) dell’Hotel di Francia nel Giuglianese. Alcuni enti si affidano a un unico operatore, che deve spesso svolgere contemporaneamente attività di mediazione, accompagnamento in questura, presso la ASL e in ospedale, distribuzione dei pasti e della gestione di eventuali”.
Cinque dei dieci migranti protagonisti del provvedimento di espulsione arrivano al centro di Ercolano proprio dall’hotel Di Francia a Giugliano, ex ristorante per matrimoni trasformato in CAS in seguito alla concessione di un appalto lo scorso luglio, che è arrivato a ospitare fino a trecentocinquanta persone. Gli ex ospiti dell’hotel raccontano di una situazione di sovraffollamento, dell’assenza di mediatori capaci di parlare la lingua bambara, così come di medici e avvocati. Gli altri cinque vengono da San Giuseppe Vesuviano, dal CAS gestito dalla cooperativa Family e salito agli onori della cronaca per le denunce sulle prolungate assenze di acqua corrente, oltre che per le condizioni igieniche precarie in cui sono costretti a vivere i migranti. Nell’estate 2015 entrambi i centri vengono chiusi, e le loro strutture sequestrate. I dieci maliani vengono così trasferiti, assieme ad altri migranti, all’Hotel Belvedere di Ercolano, struttura che ospita quasi cento persone, gestita dalla cooperativa L’Impronta. A Ercolano, però, le cose non vanno meglio: nessuna notizia rispetto al percorso di ottenimento dei documenti di asilo e dei permessi di soggiorno straordinari, operatori poco collaborativi, che non conoscono la lingua, in alcuni casi addirittura violenti. In particolar modo i migranti raccontano di come, per oltre cinque mesi, le richieste per conoscere i tempi necessari a ottenere i loro documenti vengano continuamente eluse dalla direttrice e dagli operatori, lasciando i richiedenti asilo in una condizione sospesa, di fatto impossibilitati a lasciare la struttura e a cominciare un percorso che li porti all’ottenimento di un lavoro, e con esso di una possibile indipendenza.
Il 12 aprile 2016, dopo diverse rimostranze collettive, i novantasette ospiti del centro di Ercolano, in segno di protesta, bloccano i varchi di accesso al CAS. Dopo qualche ora di tensione arriva la polizia, rimuovendo i blocchi ed effettuando perquisizioni. Nel corso delle proteste, nessuno si preoccupa di fornire una mediazione tra i migranti e le forze dell’ordine, e nessuno registra in maniera formale le ragioni del loro malcontento. Tre giorni dopo però la polizia torna all’hotel Belvedere, con una lista su cui sono annotati i nomi dei dieci ragazzi maliani, e con un provvedimento prefettizio che li obbliga a lasciare immediatamente la struttura, senza spiegazioni e senza una soluzione alternativa. L’impressione, stando alle testimonianze dei migranti presenti nel CAS, è che il provvedimento di espulsione ai danni dei dieci ragazzi sia stato preso, come spesso avviene in questi casi, “a campione”, segnalando dieci tra quelle persone che negli ultimi mesi avevano protestato nei confronti della direzione con maggiore frequenza. Si tratta, oltretutto, di provvedimenti sproporzionati rispetto alla protesta messa in atto, considerando che le leggi in materia prevedono la revoca delle misure di asilo solo in caso di “danneggiamento doloso di beni mobili e immobili” o “comportamenti violenti”, mentre nessuna denuncia in questo senso è stata inoltrata dalla cooperativa gestrice del CAS dopo le proteste.
A oggi, da quel momento, a causa di quel provvedimento, i ragazzi sono esclusi dal circuito dell’accoglienza di Stato, ospitati alla meglio in strutture appartenenti ad associazioni e movimenti sociali, ancora in attesa dei documenti che stabiliscano il loro diritto di protezione internazionale. Lo scorso 8 giugno il prefetto di Napoli ha incontrato una delegazione di attivisti e legali che chiedevano di ritirare i provvedimento e reintegrare i ragazzi nel circuito dell’accoglienza, replicando però con un netto rifiuto alle loro richieste, nonostante un dossier che evidenziava non solo la sproporzione della misura, ma anche i difetti di forma giuridici nella sua elaborazione. Nella giornata di domani è atteso il pronunciamento del Tribunale amministrativo regionale per la revoca del provvedimento e il reintegro dei migranti nei circuiti dell’accoglienza. (riccardo rosa)
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