Oggi a Milano alle ore 19 nello studio di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti in via S. Croce 15 (citofono 212) si presenta il libro Ittum, con cinquanta inchiostri del pittore napoletano Giancarlo Savino.
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Aprile 1981
Ieri è morto mio padre. No, forse, era oggi.
R. D. nato a P. il 15/11/1929 è deceduto per arresto cardiaco alle ore 00:55 del 12 aprile 1981, il medico legale G. M. ne certifica il decesso presso la sua abitazione di residenza, sita in via Lazio 16 a P.
Il medico legale è claudicante, non l’ho visto, da qui non vedo nulla, ma sento tutto. Il pavimento di granito è una cassa di risonanza affidabile nel silenzio della notte. Ascolto il suono delle scarpe di cuoio e la pausa di circa un secondo, tra la gamba buona e quella malmessa a contatto con il pavimento.
Constatata la morte, non aggiunge altro, il vizio dell’abitudine ha levigato l’uomo, per lui la morte è una questione burocratica. S’incammina verso l’uscita dell’abitazione. Sento il suono della porta chiudersi alle sue spalle: resta di lui una scia di profumo che trapassa i muri e mi fa immaginare il suo volto stanco e sgradevole.
Ieri pomeriggio in tv ho visto Caccia al rumore, un programma di Tele Mare, l’emittente cittadina. In una stanza disadorna e dalle pareti gialle, un uomo, seduto a una scrivania di metallo, e con il volto disegnato da grandi baffoni neri, guarda fisso in camera. Improvvisamente chiede alla regia di far partire il frammento di rumore. Riconosco il suono immediatamente, ma mi rifiuto di chiamare il numero indicato sullo schermo. Arrivano delle telefonate, ma nessuno distingue il suono, la caccia continua. Il primo era il sibilo di un serpente, a cui segue un elefante che barrisce, un frullatore in azione e per finire il battito di un cuore. Due animali, un elettrodomestico e un organo umano, questa strana combinazione nel pomeriggio mi aveva dato da pensare.
Nel corridoio, qualcuno dice che l’ambulanza è arrivata quaranta minuti dopo la chiamata. Un’altra voce dice che se fosse arrivata prima non sarebbe morto. Fuori è buio. Nella stanza dove mi trovo, la luce è accesa. La lampadina da novanta watt inonda tutto l’ambiente e illumina la scena dall’alto senza disegnare neanche un’ombra. Sono seduto sul letto vicino la finestra, nella stanza ci sono due letti che formano una L rovesciata, è la stanza dei miei fratelli, ma loro non ci sono, il miglior amico di mio fratello maggiore, mi parla, o meglio, m’intrattiene. Detesto l’intrattenimento. È notte. Dovrei dormire. Normalmente dormo nella stanza dei miei genitori, perché sono qui? Credo di non ascoltare le sue parole, ma voglio bene a questa persona, sento tutta la sua fatica: per il mio bene, così crede, è meglio distrarmi dal momento presente.
È l’1:03 del 12 aprile del 1981, secondo il medico legale mio padre è morto da otto minuti. Mi hanno già detto che mio padre è morto? Forse no. Arresto cardiaco. Dovrò chiedere a mio fratello, che studia medicina, cos’è un arresto cardiaco. Ho sentito queste due parole provenire dalla stanza attigua.
Perché mi parli? Che ore sono? Perché sei qui? Esco dalla stanza, lui cerca di trattenermi, ma sono più veloce dei suoi riflessi. Apro la porta. Intravedo il corpo di mio padre steso nel letto, mi fermo per vedere meglio, ma qualcuno si para innanzi a me e non mi permette di vedere. È mio fratello. Che cos’è un arresto cardiaco? Il resto della casa è al buio, anche mio padre è al buio. Torno dentro la stanza. Ho visto solo le gambe e i piedi di mio padre. Nella casa in cui mi trovo, eravamo in sei ad abitarci; mio fratello, quattro anni fa, è andato a studiare medicina al nord e siamo rimasti in cinque; ora mio padre è morto, in quanti siamo? I numeri e le parole iniziano a ossessionarmi. Ma non conosco sufficientemente bene né i numeri, né le parole: dovrò studiare molto in futuro, altrimenti i pensieri e i numeri andranno più veloce della mia capacità di riconoscerli. Più di una volta mi è capitato di aver bisogno di uno specchio che mi confermasse che il mio corpo era immobile, mentre la mente volava a una velocità insostenibile, combinando numeri e parole in modo a me incomprensibile e togliendomi il respiro. Lo specchio mi restituiva la mia immagine e nel giro di qualche minuto la testa rallentava e la mente e il corpo si ricompattavano. Alla fine avevo il fiatone come dopo una lunghissima partita di calcio e il respiro a tratti si fermava in gola. Non avevo mai detto niente a nessuno. Ora mi sembra di intuire che la conoscenza e il segreto dei numeri e delle parole potranno aiutarmi a stare meglio. O forse, dovrei cercare nei disegni del caso il senso di questa mancanza. Mio padre ha cinquantuno anni, morto. Mio nonno, il padre di mio padre è morto a cinquantuno anni. Mio zio, il fratello di mio padre è morto a cinquantuno anni. Tutti per arresto cardiaco. Devo ricordarmi di chiedere a mio fratello cos’è un arresto cardiaco. Potrei cercarlo nel dizionario, ma il dizionario è in cucina, e a me non permettono di uscire da questa stanza. In casa non abbiamo librerie, perché in casa nostra non ci sono libri, i pochi libri che c’erano li ha portati con sé mio fratello al nord. A dire il vero ce n’è uno, in due volumi, di colore giallo, il cui titolo mi ha sempre affascinato: Così parlò Zarathustra; da qualche parte c’è anche scritto: “Un libro per nessuno”. Anch’esso, come il dizionario, vive in cucina. Come sia arrivato dentro la nostra cucina non so spiegarmelo. Ogni tanto lo apro a caso e leggo una frase. Poi passo il resto della giornata a pensarci.
Cardiaco non so cosa significhi, ma cosa vuol dire arresto, lo so bene, il padre di mio padre veniva arrestato spesso. L’anno scorso a circa venticinque anni dalla sua morte, mio padre ha ricevuto una pergamena dall’associazione nazionale dei prigionieri politici che ne ricordava il valore e l’importanza per la società e la nazione in quanto antifascista della prim’ora. L’anno prima mio padre mi aveva mostrato un foglietto di carta del Ministero degli Interni con la foto di mio nonno, le sue impronte digitali, il colore dei suoi occhi, la descrizione della sua fronte, i dettagli sulla sua mandibola e i motivi dell’arresto. Era la prima volta che m’imbattevo in questa parola, arresto, da lì in poi a me riapparsa in continuazione. Come la morte. Mio nonno era stato arrestato nel 1931 per alta pericolosità sociale e per falsa identità. La pericolosità sociale con il tempo si era trasformata in un valore per la società e la nazione. Avevo chiesto a mio padre com’era possibile questo cambiamento, il nonno era pericoloso o valoroso? Ricordo il suo sorriso, ma non ricordo la sua risposta. Qualche tempo dopo mi disse: forse nella vita bisogna ricordare tutto, ma anche dimenticare tutto, per andare avanti. Tutto ricordare, tutto dimenticare. Non capivo bene cosa volesse dire, ma queste parole ora mi risuonano in testa. L’estate scorsa hanno arrestato tre miei amici. Rapinavano banche. Sono finiti in arresto. Non mi piace questa parola. D’altronde neanche a loro doveva piacere molto, visto che dopo qualche mese sono fuggiti. Sono dal barbiere a tagliarmi i capelli. Mia sorella, più grande di me di qualche anno, ama portarmi dal barbiere in Vespa. Scorrazzarmi in giro le dà la possibilità di avere una maggiore libertà d’uscita rispetto all’ordinario. Così spesso finisce che rimbalzo da una parte all’altra della città con mia sorella e le sue amiche. Il barbiere dista poche centinaia di metri dal carcere. Improvvisamente il suono delle sirene echeggia nell’aria, gli elicotteri si alzano in cielo. Di ritorno verso casa, scopro che c’è appena stata un’evasione. Fu così che imparai una nuova parola, dal suono estremamente dolce e melodioso, come il canto di una sirena: evasione. Quel giorno sperai con tutto il mio cuore che la loro fuga fosse infinita. Ma non fu così. Due di loro furono uccisi dalle forze dell’ordine e gli altri arrestati nuovamente entro l’anno. Sempre in estate hanno arrestato un carissimo amico dei miei fratelli, l’hanno trovato in macchina con diversi chilogrammi di eroina, il giorno prima mi aveva portato in moto e avevamo fatto un bagno lungo come il giorno. La sua foto sul giornale mi aveva rattristato. Anche lui era stato arrestato. Così come furono arrestati altri due amici di mia sorella, sorpresi nel bagno di un bar con una siringa nelle vene e troppa eroina negli zaini per due minorenni. Penso che la parola arresto ha un suono brutto e non mi piace neanche un po’. Mentre l’amico di mio fratello continua a parlarmi io sono perso nei miei pensieri e a questo punto scandaglio nella mia memoria cercando di trovare una storia, un ricordo che possa dirmi cosa significhi cardiaco.
Oggi è la domenica delle palme e come l’anno precedente, con i miei amici siamo andati fuori dalla chiesa a vendere i ramoscelli d’ulivo. Con i soldi racimolati abbiamo comprato un pallone, dei panini e qualcosa da bere. Abbiamo giocato tutto il pomeriggio in strada e poi siamo andati al mare a bruciare gli alberi secchi, trascinati in spiaggia dalla corrente del fiume. M. continua a parlarmi, dice che non devo preoccuparmi, che va tutto bene. Continuo a cercare nella mia memoria, ma nulla, dovrò chiedere a mio fratello. La porta si apre, ecco, entra mio fratello. Ha in mano dei vestiti, me li porge e m’invita a indossarli. Dice che dobbiamo andare a casa della nonna. Esco dalla stanza con la testa rivolta a sinistra, nella direzione della stanza di mio padre. Qualcuno ha dischiuso la porta e così riesco a vedere il suo volto. Sembra che stia dormendo.
La notte sta finendo, la prima luce del mattino s’intravede all’orizzonte. Mio fratello è alla guida della macchina di nostro padre. Mi dice che non devo piangere, me lo ripete più volte e mentre lo fa, vedo una lacrima che dal suo volto scivola sul sedile dell’automobile. Poi un’altra e un’altra ancora. Mi ha detto che papà non c’è più, ma va tutto bene. Cosa vuol dire arresto cardiaco? Mio fratello mi guarda per un attimo e allunga la sua mano sul mio volto, vuol dire che il cuore ha smesso di battere, ma lui sarà sempre nel nostro cuore, il suo cuore non batte più, ma verrà a trovarci. Ma dove? A casa? Al mare? In campagna? Dove potrò rivederlo? Il suo cuore si è trasferito nel nostro? Mentre lui continua a guidare l’automobile, guardo le targhe delle macchine e ne sommo i numeri. I numeri pari portano sventura, i dispari fortuna, oggi solo numeri pari. Mio fratello è tornato dal nord ieri pomeriggio, mio padre glielo aveva chiesto con insistenza, torna, non ti vedo da tanto. E come se mio fratello dicendomi questo volessi dirmi che forse lui sapeva che il suo cuore lo stava abbandonando. Il pensiero della consapevolezza della morte può darci qualche sollievo? No. Quando arriviamo sotto casa di mia nonna chiedo a mio fratello di riportarmi a casa. Voglio stare a casa mia. Voglio vedere mio padre. Voglio vedere tutto. Non ho paura. Della mia vita decido io, urlo, piango. Voglio tornare a casa. Mentre strepito penso che devo ricordarmi di tutto, non devo dimenticare nulla, ma ho paura di dimenticare il volto di mio padre. Ho bisogno di rivederlo, voglio tornare a casa. In quel momento decido di iniziare un diario su cui scrivere tutto quello che accade, inizierà da questa notte.
Dicembre 1993
Da due mesi vivo in un’altra città. Mi sono trasferito per motivi di studio. Prima di partire ho portato con me tutti i miei libri, un po’ di dischi e quel che resta del diario che avevo iniziato a scrivere da ragazzino. Il diario è andato bruciato, restano soltanto le parole che ho trascritto sopra. Abito in un palazzo del diciassettesimo secolo, le finestre si affacciano su una bellissima piazza del centro storico di N. È un appartamento su tre livelli di oltre cinquecento metri quadrati con pavimenti settecenteschi, affreschi al soffitto e alle pareti una quantità mai vista di quadri dipinti a olio. Si accede al nostro appartamento dopo avere percorso un’ampia scalinata di pietra lavica. Nel piano ammezzato, in un angolo, c’è una piccola porta che si apre su un balcone adornato da una moltitudine di ombrelli colorati e una varietà infinita di coperte, stracci, buste di plastica. Una sorta di tana cangiante che nasconde l’ingresso di un’abitazione. I turisti, gli studenti e gli stessi abitanti della città entrano all’interno della corte del palazzo per osservare quella che ai più appare come un’istallazione d’arte contemporanea, un archivio delle cose consumate. Credo che sia il balcone più fotografato della città. La signora che abita lì, ogni giorno percorre la strada che porta alla stazione con due grandi borse piene di sacchetti di plastica colorati. Appare diffidente e lontana da tutti, ma tra di noi c’è un’intesa. La settimana passata ho cucinato per lei. Ha suonato alla nostra porta, ha preso il piatto che le avevo preparato ed è andata via. Ogni tanto sale a cercarmi, forse mi ha scelto come tramite tra il suo mondo e il nostro. Ieri sono entrato a sua casa. Aveva una perdita d’acqua e ha chiesto il mio aiuto. L’interno è incredibilmente più denso dell’esterno. Venti metri quadrati saturi fino all’inverosimile. Raggiungere il rubinetto e tentare di sistemarlo non è stato semplice, ma alla fine, insieme, siamo riusciti a fermare la perdita. Uscendo dalla sua casa ho pensato a quanto può essere complessa la mente umana. E sul paradosso di quel cumulo di scarti così diffusamente fotografato che la protegge dallo sguardo del mondo. La sua presenza s’impone, nonostante lei voglia soltanto essere dimenticata. Nel pomeriggio, mentre la signora era in casa ed io ero fuori, si è sviluppato un incendio nel suo balcone. I miei coinquilini, lanciando secchiate d’acqua dall’alto, sono riusciti a domarlo. Lei non si è accorta di nulla.
Vivo insieme a quattro ragazze: una salentina che studia arabo, una siciliana che studia russo, una toscana che studia cinese e una milanese che studia conservazione dei beni culturali. Oltre a loro ci sono quattro uomini di circa trent’anni più grandi di noi: un marinaio che guida navi nel mediterraneo, un attore saltuario dal volto spigoloso che lavora al museo archeologico, un ex rivoluzionario rifugiatosi in un’isola del Brasile che appare sporadicamente a casa, e un pittore. Il pittore ha un problema alla gamba sinistra e la sua andatura claudicante, mentre percorre il lunghissimo corridoio che funge da ingresso della casa e su cui si affacciano le stanze del primo piano, mi riporta alla mente il medico legale della mia infanzia, ma se quello era un rumore di morte, questo è il suo opposto, arriva come un invito alla vita. Seguo il suono, esco dalla mia stanza e spesso passo la notte sveglio al suo fianco, mentre disegna. La notte usa gli acquerelli. Mi piace osservare il passaggio dallo stato liquido fino al momento in cui la carta assorbe tutto. Le opere emergono con una naturalezza folgorante. Spesso mi ci perdo dentro. Quando il colore asciuga, usa uova e aceto per fissare il tutto. I quadri alle pareti e i soffitti affrescati sono opera sua. Mentre lui disegna, parliamo. Poco prima che la notte faccia spazio al giorno andiamo a letto.
Aprile 1994
Non scrivo più come un tempo. Sono tornato per qualche giorno a P. come ogni anno, il 12 di aprile, con mia madre ci ripetiamo il numero di anni che ci separano da suo marito, da mio padre. Quest’anno sono tredici. Mia madre mi chiede se ho dei ricordi di cose fatte con lui. Rispondo di sì, ma c’è un ricordo che più di tutti ho in mente, non so dire quanti anni avevo. Le racconto di quando una sera, mentre ero a casa con lei e mio padre, chiamai una radio locale dal telefono che stava nella stanza di mia sorella. Chiamai, perché mio padre, disteso nel letto, stava ascoltando quella stazione radio. Improvvisamente la mia voce, attraverso la radio, inondò la sua stanza. Mio padre mi riconobbe subito e con il volto si affacciò dalla porta nella mia direzione e mi regalò un sorriso dolcissimo. Dissi al telefono che volevo dedicare una canzone napoletana classica al mio adorato papà che mi stava ascoltando. Mia madre interrompe il mio racconto, per dirmi che mio padre, quella notte, qualche ora dopo, sarebbe morto. Non ricordavo questo dettaglio. Vorrei ricordare il titolo di quella canzone. Nel corso degli anni ho cercato di ascoltarle tutte. A volte ho creduto di averla trovata, ma alla fine credo di avere imparato a nutrirmi di questa mancanza. E come mi disse lui un giorno: “Tutto ricordare. Tutto dimenticare”. (massimo d’anolfi)
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