
La centralità di temi come l’economia di piattaforma e le trasformazioni digitali in questo momento storico, va di pari passo con il proliferare di analisi e ricerche sui nuovi rapporti di lavoro: alcuni si concentrano sui nuovi modelli di contrattazione, altri guardano ai provvedimenti normativi sul lavoro nelle piattaforme. Una certa letteratura sociologica osserva la genesi del conflitto e le forme di resistenza, le mobilitazioni in corso, la varietà dei processi di sindacalizzazione. La questione continua a essere sotto i riflettori – mentre viene trascurato ciò che succede nel mondo della logistica, dentro e fuori ai magazzini, con i primi arresti e denunce in seguito ai picchetti. Il giornalismo affronta con approssimazione la faccenda, la cronaca parla di gravi infortuni (ma finché non ci scappa il morto va tutto bene), di un tavolo negoziale promosso dal governo, di una sentenza del tribunale di Torino che ribalta ciò che era stato stabilito in primo grado, affermando che quello nel food delivery è lavoro subordinato e che esiste un vincolo di eterodirezione in esso.
Grande è in altre parole la confusione sotto il cielo che minaccia le pedalate invernali del rider imbacuccato in sella alla (sua) bicicletta, alle prese con le consegne del cosiddetto ultimo miglio. Un’analisi fornita da Bankitalia delinea un fenomeno frammentario, con inquadramenti contrattuali eterogenei e di breve durata, che vanno dalla collaborazione coordinata, occasionale, al lavoro autonomo a partita Iva. Il lavoro a chiamata tramite piattaforma “necessiterebbe di informazioni di maggior dettaglio al momento non disponibili”. A parità di prestazioni professionali si assiste a un’eterogeneità negli inquadramenti che di certo non agevola un’armonizzazione capace di favorire tutele per chi trae la principale fonte di reddito da questo lavoro.
Il 5 febbraio scorso, l’assessorato alle politiche del lavoro del comune di Milano ha organizzato un tavolo territoriale tra le parti sociali coinvolte nella questione dei lavoratori delle consegne a domicilio, con l’obiettivo di presentare l’esito di una ricerca svolta dall’Università degli Studi di Milano sul profilo sociale del rider milanese. La ricerca, basata su un campione di interviste raccolte da un gruppo di studenti della facoltà di scienze politiche, è stata presentata di fronte ai rappresentanti delle piattaforme (Deliveroo, Glovo e My Menù, assenti UberEats e Just Eat), le associazioni di categoria, l’Inps, i sindacati autonomi e confederali.
Il profilo del rider milanese che emerge dalla ricerca fornisce degli spunti di riflessione interessanti. Sono state realizzate più di duecento interviste piuttosto brevi, un campione significativo nonostante sia ignota la popolazione complessiva dei fattorini a Milano. Secondo questo studio molti rider sono migranti, in tanti lavorano a Milano ma vivono in provincia, addirittura alcuni non conoscono affatto l’italiano. Il lavoro di consegna è la loro principale attività, e la scarsa conoscenza della lingua produce non solo asimmetrie informative rispetto alle relazioni contrattuali, ma anche un abuso di posizione dominante del datore di lavoro. Si tratta prevalentemente di una flotta composta da giovani maschi istruiti, che lavora in media più di cinquanta ore settimanali e che ha situazioni contrattuali atipiche, ma questo dato è subordinato alla scarsa percezione dell’inquadramento contrattuale degli intervistati.
Forse l’aspetto più interessante è che i dati esposti dalla ricerca sono in contrasto rispetto ai numeri forniti dal responsabile delle relazioni esterne di Deliveroo, intervenuto subito dopo i docenti della Statale. Al di là dell’accento sul fatto che si tratta di “un lavoretto per studenti” che possono scegliere “dove, come e quando lavorare”, i suoi numeri si basano sui questionari somministrati dall’azienda ai lavoratori a livello nazionale ogni tre mesi, questionari anonimi solo a parole dal momento che vengono somministrati via mail. Stando alle informazioni fornite dal rappresentante di Deliveroo, tre lavoratori su quattro sono italiani, fino a dicembre scorso erano attivi circa 6.500 contratti in tutta Italia, di cui circa 3.500 realmente in corso – poiché Deliveroo applica “contratti di lavoro autonomo a tempo indeterminato”, quindi c’è una parte “dormiente” di rider che di tanto in tanto riprende a lavorare senza il bisogno di rinnovo contrattuale. Su Milano, che pesa circa la metà del campione nazionale, c’è una flotta di circa 2.500 rider che lavora solo per Deliveroo. In media i fattorini lavorano tredici ore la settimana per un guadagno di 156 euro, con picchi e flessi piuttosto rilevanti anche a seconda delle stagioni. Quanto al grado di soddisfazione – ovviamente altissimo –, è chiaro che si tratta di un dato falsato, poiché se l’azienda chiede a un campione di lavoratori autoselezionati, non anonimi, se sono soddisfatti, la risposta in linea di massima non può essere che una. Infine, il responsabile di Deliveroo ha affermato che «al momento non c’è uno studio di riferimento sul settore con dati economici e sulla popolazione dei rider».
La ricerca presentata dall’università mostra uno spaccato utile a favorire qualche spunto di riflessione. Sebbene a tratti approssimativo, l’identikit scatta una foto (ancora sfocata) sul fenomeno a livello territoriale che, insieme alla reazione – piuttosto che ai dati forniti – del rappresentante di Deliveroo, stabilisce un punto di partenza e fornisce qualche elemento in più di riflessione.
Intanto manca il dato del guadagno. Basta frequentare le chat comuni dei fattorini o i gruppi privati sui social per rendersi conto che neanche loro conoscono i meccanismi di pagamento della prestazione lavorativa. In questo momento i lavoratori non sanno quanto guadagnano, non capiscono come funziona il modello retributivo, a prescindere che si tratti di lavoratori italiani o stranieri, di questa o quella piattaforma. Un altro elemento da considerare è che si tratta soprattutto di lavoratori studenti e non per forza di studenti lavoratori, di nativi digitali che interagiscono tra loro tramite chat e gruppi privati sui social network, di gente che con la tecnologia ha un rapporto molto più intimo rispetto alla generazione appena precedente.
Nell’attesa di un provvedimento normativo che stenta ad arrivare, da sottolineare è la mancanza di trasparenza in merito a certe informazioni fondamentali, in un settore che produce, analizza ed elabora dati su dati in continuazione, giorno e notte, consegna dopo consegna, questionario dopo questionario. Le imprese di food delivery non sembrano avvezze a collaborare, anzi traggono vantaggio da questa mancanza di trasparenza in un settore studiato in lungo e in largo eppure ancora dai tratti oscuri ai più. Soprattutto a quella flotta di lavoratori fungibili che alimentano un meccanismo basato sulla capacità di acquisizione e utilizzo delle informazioni in tempo reale e standardizzato, attraverso l’uso di tecnologie informatiche. Un sistema dalla struttura ignota, che fonda sul controllo, l’autosfruttamento e la falsa autonomia l’espropriazione di valore dalla prestazione di lavoro.
Alla mancanza di trasparenza si aggiunge il caos delle condizioni contrattuali, della varietà dei meccanismi retributivi e dei riferimenti giuridici, nonostante l’introduzione della figura del rider all’interno del contratto collettivo nazionale della logistica e dei trasporti. «Una giungla», come ha sottolineato un fattorino nel corso del suo intervento. Ciò su cui sarebbe necessario un approfondimento al momento è per esempio l’organizzazione del management, sono i dettagli dell’organigramma, le strategie manageriali, la “cultura aziendale”, i conti economici, l’analisi dei bilanci. E poi le condizioni materiali dei lavoratori, la composizione della flotta, la qualità del lavoro in sé, l’analisi del dispositivo che favorisce l’estrazione di valore dalla prestazione di lavoro, il meccanismo di funzionamento dell’algoritmo, del punteggio di affidabilità, del sistema che seleziona i lavoratori nelle sessioni. È chiaro che non bastano delle interviste da otto minuti ciascuna a svelare questi aspetti, e che solo un’inchiesta approfondita, indipendente, magari condotta dagli stessi lavoratori, può chiarire certi punti cruciali tanto per la comprensione di questo microcosmo quanto per lo sviluppo di una coscienza critica. Per interpretare la condizione reale dei fattorini delle piattaforme bisogna partire dalla molteplicità dei modelli contrattuali in vigore e dal lavoratore che talvolta accetta le condizioni del suo sfruttamento.
Nonostante la visibilità mediatica, i questionari propinati a scadenza trimestrale dalle imprese ai lavoratori, malgrado i big-data elaborati senza sosta, il proliferare di ricerche, studi e analisi che, a prescindere dalla qualità e dai committenti, vengono sfornate ormai all’ordine del giorno, l’universo dei rider resta ancora oscuro. Come quando c’è un’alluvione, la prima cosa che viene a mancare è l’acqua potabile. (andrea bottalico)
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