Sessantaquattro partite in dodici città, per centosettanta gol e quattrocentoventicinque milioni messi in campo dalla FIFA; quattordici miliardi di reais tra fondi pubblici e privati, di cui quattro spesi per la costruzione o ristrutturazione degli stadi (investimenti in alcuni casi grotteschi: l’Arena Amazonia di Manaus, per esempio, sarà convertita in un carcere alla fine del torneo). Ottava finale della storia per la Germania, Klose recordman per i gol segnati nella fase finale, record negativo di tiri in porta (sei) per Costa Rica-Inghilterra. Cinquemila famiglie sgomberate soltanto a Rio, tremila arresti nei quattro mesi di proteste e manifestazioni che hanno preceduto la competizione, tredici operai morti durante la costruzione di stadi e infrastrutture. Sconfitta più pesante nella storia della nazionale brasiliana, seconda eliminazione consecutiva per l’Italia nella fase a gironi, seconda eliminazione consecutiva nei gironi per la squadra detentrice del titolo.
Questo è stato, numeri alla mano, il mondiale brasiliano. Quattordici righe di contraddizioni spalmate in poco più di trenta giorni. A essere onesti, non è stato un mondiale troppo degno: per quanto visto in campo, per come è stato organizzato, per gli eventi che l’hanno preceduto, per come è stato raccontato. Migliore dello scempio sudafricano di quattro anni fa, non per la cifra tecnica espressa, ma per il numero di reti viste, e ancor di più per quello di partite in bilico fino agli ultimi secondi di gioco. Pallone tra i piedi, non ci sono state grosse sorprese. La media età dei calciatori era abbastanza alta, e molti i volti presenti nelle varie nazionali già quattro e otto anni fa. Non è un caso che le cose migliori siano venute dai giovani, che nonostante l’inesperienza si sono rivelati pronti ad affrontare la competizione, distinguendosi per freschezza dai loro colleghi. Bene quelli già famosi (Pogba e Varane, anche se poi hanno commesso gli errori decisivi nella gara contro la Germania. Poi Schurrle, Verratti, Griezmann, Depay, Neymar, James Rodriguez) e quelli meno (Manolas della Grecia, Origi del Belgio, Campbell della Costa Rica).
Male hanno fatto arbitri (ultima disastrosa prestazione ieri in Olanda-Brasile) e portieri. Tra gli errori più clamorosi quelli dei noti Casillas e Pletikosa e degli estremi difensori africani, mentre in evidenza si è messo un gruppo di numeri uno centro-sudamericani, che a fronte di un rendimento buono ma non sensazionale hanno brillato per esplosività e carisma: Romero dell’Argentina, Ospina della Colombia, Ochoa del Messico, el Gato Navas della Costa Rica. Migliore in assoluto il tedesco Neuer, senza rivali in questo momento. Davanti a loro molte difese arroccate eppure ballerine, capitanate da quella del Brasile (a sua volta guidata dall’improponibile David Luiz). Significativo che in finale vadano Germania e Argentina: i tedeschi hanno giocato tre quarti di mondiale con quattro difensori centrali, mentre la squadra di Sabella è apparsa fin dalla prima partita meritevole di considerazione per la vittoria solo perché fondata su un sistema difensivo maggiormente solido e quadrato rispetto agli scorsi anni. Dall’altra parte Brasile e Spagna che incassano dodici gol nelle due partite contro Germania e Olanda.
Da un punto di vista della costruzione del gioco c’è molto poco di nuovo. Le squadre tradizionalmente innovatrici (l’Olanda, su tutte) propongono un calcio difensivo e noioso, e in generale quasi tutte le nazionali fondano la propria trama offensiva più che su una manovra sulle giocate dei propri centrocampisti offensivi e attaccanti. Pochissime (forse solo la Colombia) mostrano un gioco piacevole con continuità, tanto è vero che i migliori, o almeno quelli decisivi, tra gli uomini del centrocampo sono quasi sempre i mediani (Medel, Mascherano, Khedira). Sono loro a pressare alto i pochissimi registi, mentre ali e trequartisti rimangono isolati o sfiancati dal lavoro difensivo imposto dai tecnici (Kuyt, a trentaquattro anni, finisce a fare il terzino in una difesa a cinque; Lavezzi non si è mai visto correre tanto verso la propria porta; Hulk, già abbastanza penoso di suo, accelera da una bandierina all’altra del corner senza sosta). Di conseguenza nessuno, o quasi – fanno eccezione Van Persie (a metà) e Klose – tra i bomber di primo piano, brilla, dovendo fare i conti con una moria di palloni giocabili incredibile. Si segnala, infine, la tanto attesa fine dell’era tiki taka, che se alla Spagna ha portato successi e onori, in tanti altri casi ha mascherato dietro una etichetta fascinosa l’incapacità per tante squadre di trovare un varco nelle difese avversarie, e la tendenza a effettuare decine di migliaia di passaggi inutili in una partita, senza mai calciare in porta.
Tante colpe di questo scenario abbastanza deprimente vanno agli allenatori: van Gaal fa giocare i suoi sempre dietro la linea della palla; Hodgson, Scolari e Del Bosque sbagliano tutto quello che possono, dalle convocazioni fino alla formazione; Loew prende delle tranvate clamorose, ma almeno riesce a rimediare; Sabella mette in campo sette o otto lottatori il cui unico dogma è quello di non prendere gol; velo pietoso sulle scelte di Prandelli. Tra le squadre di seconda fascia si fanno notare alcune formazioni quasi disgustose, come la Svizzera, la Grecia e la Costa Rica, che vanno avanti puntando tutto sul non prendere gol (e infatti poi lo incassano all’ultimo secondo di gioco, o al massimo escono ai rigori). Si salvano, sulle panchine, personaggi simpatici più che innovativi: su tutti el Piojo Herrera, che sarebbe spassoso vedere in un campionato europeo.
In televisione, intanto, si celebra la morte del servizio pubblico. Per (non) contrastare la macchina da guerra della concorrenza satellitare, la Rai propone un’offerta offensiva nel suo minimalismo. Una partita al giorno, pure durante i quarti di finale, raccontata da un telecronista quasi sempre abbandonato a sé stesso, e solo talvolta, in maniera totalmente casuale, accompagnato da un Dossena bollito dopo già tre o quattro giorni di mondiale. Il parco giornalisti, d’altronde, si fonda ancora sul cerone e sul phard di Paola Ferrari, le cravatte rossonere di Paris, gli occhioni dolci di Stefano Mattei, e la civetteria di Marco Civoli; dietro di loro, il nuovo che avanza (Lollobrigida e Antinelli) coadiuvato dai vari Montingelli, Failla, Paganini, De Paoli, un gruppone che per aspetto, idee, voci e movenze ricorda più gli impiegati comunali della circoscrizione Vomero-Arenella che una affiatata squadra di cronisti in missione mondiale. Scontato, in questo contesto, il dominio di Sky, i cui uomini di punta sono pure quasi tutti ormai insopportabili, schiacciati tra la propria bravura e la ricerca di un personaggismo hollywoodiano ad ogni costo, evidentemente imposto dai vertici aziendali. Già un paio d’anni fa Gianni Mura raccontava a due cronisti di questa testata la propria insofferenza per gli incipit prepartita guerreschi ed epicheggianti di Caressa («Fabio, lasciamo perdere tutte ‘ste minchiate», ebbe modo di suggerire davanti a una Malvasia piacentina): con questo mondiale la situazione è definitivamente degenerata, tra l’aneddotica incontrollata di Marianella, le urla generalizzate, lo storytelling caricato all’estremo di Federico Buffa, il format “senza giacca e cravatta” di Bonan, Di Marzio, Cattaneo. Si salvano, in questo contesto, i rari giapponesi alle Filippine, che soprattutto su carta stampata e radio provano a resistere all’imperante deriva che ci impone narrazioni di calciatori che “hanno (o non hanno) gamba”, “recuperano il tempo di gioco”, tentano ora “l’imbucata”, ora “l’imbeccata”. Dalle pagine di questa rubrica abbiamo provato a raccontare tutto questo, senza riuscire, con buone probabilità, a tirarci minimamente fuori dalla mischia. Questa notte, al massimo entro l’una, sarà tutto finito. Purtroppo o per fortuna, dipende dai punti di vista. (riccardo rosa)
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