Si svolgerà il 22 marzo a Milano la presentazione della piattaforma MORIRE DI PENA. PER L’ABOLIZIONE DI ERGASTOLO E 41BIS, dopo la diffusione di un documento on-line che ha raccolto più di cinquecento adesioni individuali e quasi trecento sottoscrizioni tra gruppi, associazioni e collettivi. A promuovere l’incontro una rete di realtà impegnate nel mondo della cultura e nella tutela dei diritti, sindacati di base, avvocati, attivisti e addetti ai lavori dell’universo penitenziario.
All’iniziativa (a partire dalle 18:00 alla Casa della cultura di Milano – via Borgogna, 3) interverranno Daria Bignardi, Gad Lerner, oltre agli avvocati Edoardo Rossi e Gaia Tessitore e alla presidente di Antigone Lombardia, Valeria Verdolini.
Pubblichiamo a seguire un estratto dal libro Le istituzioni dell’agonia. Ergastolo e pena di morte, di Nicola Valentino.
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“Non son chi fui, di me peri gran parte”. Così Luigi Settembrini, patriota risorgimentale, al quale la pena di morte era stata commutata in ergastolo, sintetizza, all’interno di una pagina di scrittura inquieta, in un solo verso, la sua condizione di morte identitaria. E aggiunge: “Questo che avanza è sol languore e pianto. Come a dire che ciò che resta è solo il vuoto, accompagnato dal pianto per il lutto di quel che di sé perisce”. Settembrini era all’Ergastolo di Santo Stefano, e correva l’anno 1855.
Se volgiamo lo sguardo alla storia e anche solo un colpo d’occhio al presente, possiamo affermare che nel mondo, una parte dell’umanità ha vissuto e tuttora vive una condizione di agonia, non a causa di una malattia terminale, ma perché viene ridotta in agonia, posta in agonia, attraverso due istituti dei sistemi penali che sono la pena di morte e l’ergastolo.
LA PRONUNCIA DELLA CONDANNA
Condannato a morte. […]
Fino alla sentenza di morte mi ero sentito respirare,
palpitare, vivere nello stesso mondo degli altri,
ora distinguevo chiaramente
una specie di barriera tra il mondo e me…¹
Santo Padre,
sono la mamma di un detenuto politico,
condannato allErgastolo.
Molte volte mi viene a mancare la fede
perché la parola Ergastolo è un tarlo
che sta distruggendo il mio cervello.²
Mai come nel caso delle pene capitali, la condanna si infligge, con danno appunto, nel corpo del condannato e persino negli incolpevoli congiunti, all’atto della sentenza. La parola in questo caso non ha nulla di aleatorio e il “dispositivo di enunciazione”, in tempo reale, si tramuta in esecuzione, si sostanzia, si fa corpo; e per quanto la condanna si possa anche non riconoscere, non accettare, la si comincia, gioco forza, a scontare.
Pena di morte ed ergastolo infliggono quindi l’agonia, con l’atto stesso della pronuncia della sentenza, ed essendo fino alla morte, a differenza di altre forme di pena di tipo temporale, decretano la morte della persona a qualunque prospettiva sociale. Se una pena temporale sradica socialmente la persona condannata per un tempo limitato, riconoscendole, pur nella disumanità dell’atto, un diritto all’esistenza sociale, seppur sospeso, con le pene capitali è la stessa prospettiva sociale a essere cancellata. In ciò risiede la caratteristica eliminativa e di definitiva esclusione dal consorzio umano delle pene capitali.
A scanso di equivoci, per quel che riguarda l’ergastolo, si vuole qui ricordare che la formula utilizzata in molte sentenze suona, senza tanti giri di parole, “fino a morte del reo”. L’ergastolo, qualunque ergastolo, è fino alla morte del reo. Ed è nel momento in cui lo Stato lo dichiara che viene inoculato nel corpo del condannato il germe di questa condizione terminale.
LA MORTIFICAZIONE DELL’IDENTITÀ DI SPECIE
L’identità più profonda di ogni umano è quella di essere una creatura sociale. Quando si viene privati per sentenza della stessa prospettiva sociale, la nostra identità profonda, quel “Sé relazionale” che ci caratterizza, entra in uno stato di agonia. In un quotidiano vivere morendo che si consuma nella prigione.
Una condizione potremmo dire capovolta rispetto alle malattie terminali, perché nel caso delle agonie da pene capitali è il decreto di morte sociale la fonte di agonia del corpo. Al contrario, nell’agonia conseguente a una malattia, l’isolamento dalle dimensioni comunitarie e dalle possibilità relazionali si presenta solitamente come conseguenza del ridimensionamento delle relazioni, dovuto all’invalidamento fisico o all’istituzionalizzazione sanitaria.
Per immaginare l’agonia da amputazione del Sé relazionale e dell’identità di specie propria delle pene capitali, può venire in aiuto la narrazione del rapporto con la morte fatta da una donna, Lia Traverso, quando era internata in manicomio nel 1970, in condizioni di istituzionalizzazione senza via di uscita. A un certo punto l’autrice annota nel suo diario quotidiano: “Chissà se riesco a finire questo quaderno, perché potrebbe cogliermi la morte improvvisa”.
Lo stato di co-presenza di vita e morte che Lia espone sembra molto simile a quello dei bambini appena nati, che, se non adeguatamente accuditi dal contatto corporeo di altri esseri umani, possono morire senza una apparente ragione. Viene chiamata “morte da culla” o “sindrome della morte improvvisa”. Si potrebbe dire che il legame fra anima e corpo sia in loro fortemente instabile, e che l’accudimento sposti verso la vita la propensione del neonato. L’internata Lia Traverso, non avendo accudimento alcuno, cercava attraverso l’attività diaristica di ricucire costantemente questo legame.
Nelle agonie da pene capitali, quando l’identità di specie è radicalmente minata, il legame fra anima e corpo necessita di essere costantemente ricucito dal recluso attraverso le più svariate risorse: invenzioni simboliche, forme di adattamento, la creazione di un immaginario di esistenza possibile. Risorse che il più delle volte costantemente naufragano per mancanza di un reale intreccio con il vivente, irrimediabilmente esterno. In un certo senso l’agonia costituisce in questi casi anche la forma che prende la resistenza alla morte. Senza questi faticosi tentativi di tenere nei pressi la propria anima, la condanna stessa, la sua pronuncia, porterebbe alla morte del condannato.
Sia con la pena di morte sia con l’ergastolo, i congiunti della persona reclusa sono essi stessi privati della prospettiva sociale del loro familiare e hanno a che fare, da quel momento in poi, con una persona morente con la quale non hanno alcuna materiale prossimità. Per cui la rete sociale e familiare delle persone condannate si trova a convivere con una condizione di lutto privo di un immaginario che lo possa elaborare. Hanno a che fare con persone vive, ma allo stesso tempo morte perché private di ogni prospettiva sociale.
L’istituzione di questo artificio costituisce una singolarità antropologica, in quanto la comunità di persone prossime al condannato deve elaborare di fatto il lutto di un vivo.
Nella mia esperienza di reclusione all’ergastolo un giorno ho ricevuto una lettera da una persona che veniva coraggiosamente a trovarmi, la quale, saltando il suo rituale colloquio, mi scrisse: “Tutto questo mette a dura prova, perché a dire il vero io non so se esisti veramente”.
Chi è durato di più in questa relazione priva di prossimità lo ha fatto forse perché a suo modo mi ha “fantasmato”, mi ha creato come un oggetto di fantasia, proprio come si fa con un morto, e io a mia volta ho offerto di me una proiezione per alimentare questo fantasma. D’altro canto, i congiunti delle persone all’ergastolo o recluse in un braccio della morte subiscono, all’atto della condanna, la perdita di una persona cara, ma il lutto per questa perdita non trova legittimazione sociale. Rientra nella categoria dei lutti riprovati, perché la persona che viene definitivamente strappata a suo contesto sociale è socialmente stigmatizzata. I congiunti possono testimoniare il loro dolore solo nell’intimità e con le persone prossime. Ciò accade perché il riconoscimento sociale del dolore per quella perdita minerebbe la legittimità sociale della pena di mortale istituzionalmente inflitta.
Praticamente lo stigma e la riprovazione nei confronti del condannato si estendono anche a coloro che cercano di stargli vicino. Per il doppio aspetto di lutto paradossale e di lutto riprovato, una condanna all’ergastolo può costituire, come nella testimonianza iniziale, un “tarlo”, una agonia del pensiero e dell’immaginario, anche per chi ha un legame col condannato.
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¹ Donata Feroldi (a cura di), Victor Hugo, L’ultimo giorno di un condannato. Feltrinelli, Milano (2016 – seconda ed.)
² Nicola Valentino, L’ergastolo dall’inizio alla fine. Sensibili alle foglie (2009)
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