Ritorna La digestion(e). Proprio quando, la domenica, Napoli è bloccata dalla congestione. Impieghiamo più tempo per raggiungere piazza Garibaldi dallo svincolo, che per percorrere l’autostrada da Avellino Ovest. Il tempo stringe. L’organizzazione ci tiene alla puntualità: nell’evento si fa riferimento alle 20 e 30. Così, partiamo alla volta di salita Pontecorvo. La paura di un ritardo fa accelerare di brutto: mettiamo le ridotte e ci inerpichiamo per la strada buia. Arriviamo, trafelati, sudatini, nel paesino incantato che ospita, in fondo, il Museo Nitsch e. Niente. Troviamo il disagio ad accoglierci. La biglietteria è attenta e gentile ma il dentro è davvero freddo, più ordinato che l’archivio di un gabinetto della repubblica. Mai tante reliquie furono così esposte al pubblico ludibrio, roba che manco Ciappelletto. Il visitatore è scosso. Parteciperà stavolta a un rito di natura, se vogliamo, ancora più tribale: il concerto quadrifonico dove gli organizzatori dell’evento, l’associazione Phonurgia (al secolo Giulio Nocera, Renato Grieco e Mimmo Napolitano, oltre al grafico Andrea Bolognino), incontrano Valerio Tricoli, artista del suono tra i più vitali e originali interpreti della musica per (e con) nastro magnetico.
Così, gettati nel limbo che divide l’orario comunicato dall’orario effettivo dell’inizio, ci spostiamo dalle sale museali al terrazzino panoramico di fianco alla sala concerto. C’è la vendita di bibite, birre e vino campano in cartone da cinque litri, rosso. Siamo così i primi che il banchetto ancora deve essere attrezzato, ma con un po’ di buona lena riceviamo quanto ci spetta. Il pubblico si raduna, pian piano; prende posto in sala, opportunamente ridisegnata per la sua comoda partecipazione. Sebbene cautelatisi con un ingresso massimo di centosettanta posti, il numero dei presenti copre il numero dei partecipanti sull’evento Facebook, poco più di un centinaio. Insomma, lo stato di salute della musica ascoltata raramente si conferma buono. Stavolta non c’è il pubblico mosso dalla logica dell’evento, come per Drumm. Stavolta ci sta chi ci vuole stare, a siglare un rapporto tutto di fiducia tra artisti e pubblico. Questo il clima giusto. Nessun cicaleccio di sorta, solo muta partecipazione a occhi chiusi.
La sala è attrezzata molto bene. L’idea della residenza funziona, dissolve la logica dell’evento e la gestazione del concerto guadagna di questa riscoperta sensibilità. Si spengono le luci. L’ingresso in scena del quartetto e si parte. Si posizionano proprio dove sono disposti gli strumenti analogici e digitali, in un ibrido in grado di ristabilire le connessioni della storia della liuteria tecnologica. Il pubblico li osservava proprio come beni culturali museali, gira intorno ai Revox come fossero sculture.
Una volta posizionati, sembrano una difesa a quattro, due centrali, due terzini, illuminati da luci calde che creano l’atmosfera propria della musica concreta. Noi del pubblico siamo adagiati o su panche da festa della porchetta o su piumoni Ikea in piuma d’oca. Il resto in piedi resta. Forse a guadagnare il pregio della diffusione quadrifonica messa a punto per il concerto. Anche se la stessa presenta dei problemi di ricezione mai neutrali al fine della fruizione da parte del pubblico.
Da un botto non ne sento. Di musica concreta così. Così concreta. La creazione è attenta e definita: fasci di suono e giochi di rumore intermittenti si sovrappongono. Un respiro fatto di suoni inframezzato da cellule musicali. I tagli, netti, definiscono la quadrifonia. La pressione sonora non scema, mai. Continua, guadagna l’attenzione. Ci sono dei momenti di un’intensità incredibile. Gli interventi di Tricoli sul Revox sono scoppiettanti. I movimenti giocano su un leitmotiv che innerva tutta la trama ben legata tra fasce di rumore. La complessità che ne viene fuori fa tremare le vene ai polsi. Poi ci sono degli interventi un po’ più animati che preannunciano una lieve stasi. Si gioca molto con interventi minimi eppure devastanti nel campo delle frequenze. Si nota una strutturazione della performance ben meditata durante la residenza: non si costruiscono palazzi senza strutture. Passiamo alla meditazione. Del loop e del suono che si forma e si disforma. Come si animasse un campo di cicale mentre intervengono non poche manipolazioni sul nastro. La coerenza di quanto è in esecuzione risalta all’occhio scenico e al tatto acustico. Il principio dell’accumulazione dei materiali (di rara bellezza) non disperde ma trasforma la cellula in organismo complesso. E non c’è intervento singolo che resti inascoltato, cui non venga dato seguito. Non è una questione di confort, ma di confronto improvvisativo cui rispondere con la coerenza e non con l’autismo. Il principio dell’ascolto ridotto mi distoglie dalle fonti del suono per farmi concentrare sul suono in ascolto. Operazione legittima, se pensiamo alla sua significatività.
Poi entra un testo appena sussurrato su cui si interviene spasmodicamente alla ricerca, continua, del nascondimento. Come non dovesse rimanere intrappolato nel gioco acustico. Che va sempre avanti. Scorre. Mai discontinuo. Nessuno dei performer si sbatte, ma ascolta, attento, considerando lo strumento innervazione del sé e non sofisticazione di sé.
La fase con più groove di tutte gioca anche sulle frequenze. Mi metto disteso; le basse frequenze ridisegnano il pavimento attraverso le vibrazioni. Conto tre interventi di questa portata. Come se tutto stesse per allentarsi, per stringersi. Insomma, non c’è spazio per la stasi. Ci sono elementi in loop mentre la voce torna, sempre, più manipolata che mai, fino a diventare protagonista della scena sonora. Ogni compartecipazione si fa esatta quando la coerenza con cui è presa fa leva sul tema del segmento. Microsuoni in ascolto. Prima di una fascia sonora così diversa da quanto ascoltato finora, mentre le voci s’inseguono nei diffusori. Credimi, lettore. Quanto sia esatta la musica in ascolto è difficile descrivertelo. Fatto sta che suona così bene proprio per quanto la precede. L’ululato accompagna questa fascia dronica e davvero vibra, manipolata poi in velocità, dunque in frequenza. Con sovrapposizioni mai scariche. Il gesto è diretto, chiaro, attento e preciso. Il pubblico in sala, sempre taciturno e attento, ha l’orecchio appeso allo scorrere. Poi inizia a scoppiettare tutto. Fino al nuovo segmento. Altri materiali fanno il loro ingresso, più stratificati che mai. A te che ascolti te ne importa davvero come fanno quel suono o ti interessa di più quel suono? Per esempio, ci sono suoni globulari, come di acqua, che si frappongono a questo cataclisma acustico. E l’ululato non abbandona mai la scena. Presente. Sullo sfondo. Tutta la struttura è certosina. Siamo a una tendenza locomotivica. Subito interrotta mentre tutto il disegno ritmico continua con manipolazioni sugli strumenti analogici. Ed eccolo. Mancava. Appare il silenzio. E cambia la musica. Siamo al momento più denso, quello in cui decidono poi di animarsi, di animare la trama con una complessità che alza la pressione sonora, il livello degli interventi e altro ancora. Ritorna evidente la spazializzazione nei diffusori, stavolta meno movimentata. Il suono arriva che ancora deve partire. I suoni s’inseguono. Di continuo. Fino ad arrivare a una strettoia mentre un timer fa accusare il tempo che scorre.
La voce come elemento sotterraneo scava la performance fino ad apparire nelle riemersioni col carattere totale del suo portato acustico. Con pochi materiali, sempre gli stessi, si fa tanto, tantissimo. Torna l’accumulazione della voce in primo piano, mentre altri gesti si fanno sempre più pressanti, quasi a occludere la portata di una voce destinata a venire fuori. A farsi sentire. Questo segmento è il suo. Tanta la manipolazione che la diverte. Voci diverse, maschile e femminile, compongono lo spettro. Certo, non sono gli unici materiali. Eppure. Questo segmento, di rara purezza, s’impone per la sua coerenza. Va avanti. Scorre, continuo. Straripa.
Poi addirittura si canta, mentre tutti i suoni di una catena d’ingranaggi ritmano il vocalizzo continuo, che si mantiene inalterato nell’intervallo di un tono e mezzo. Poi di mezzo tono sovrapposto a se stesso, ma manipolato. Come in un duetto straziato. E questo gioco di accumulazione continua. Interventi diversi tra loro che nel ritornare aggiungono trame. La voce arriva a scomporsi nel momento della pressione acustica più debordante della serata. Non ci si ferma un attimo. È uno scasso, totale. E c’è chi se ne compiace, parecchio. Niente da aggiungere. Solo il suono nella sua drammaturgia. Qualche percussiva, ma davvero tutto scorre tranquillo. Poi Grieco si posiziona al contrabbasso, di cui è fine interprete, mentre gli altri tre continuano a lavorare sui loro dispositivi analogici e digitali. L’esecuzione diventa meno squillante, più oscura. Il flash dei fotografi illumina la sala. Si sente un lavorio completamente diverso: nel suo restare intrappolato su se stesso, sui suoi gesti, propone la chiave per andare avanti.
Così il flusso s’interrompe. Di scatto, il silenzio. Il più bel finale che abbia ascoltato. Per decisione. Spesso l’inerzia fa andare avanti le cose, a lungo. Stavolta no. Mai nessuno fu così netto. Deo Gratias. (antonio mastrogiacomo)
1 Comment