Dal n. 53 di Napoli Monitor
Un edificio basso, circondato da cancellate alte e arrugginite, in mezzo alle palazzine. Un ingresso con le vetrate ricoperte da manifesti che riportano slogan a lettere cubitali. La “parola”, quella, appare solo in quei manifesti. Un atrio severo, muri grigi abbelliti qua e là dai cartelloni colorati. Quando sali le scale sei attratto dalle innumerevoli scritte… Lei entra, saluta controvoglia e chiude la porta. Eccessivamente truccata, il fondotinta, il rossetto, gli occhiali e la borsa. La sua voce acuta è una tortura. Loro la guardano assopiti, alcuni ostili, altri indifferenti, ma se potessero la riempirebbero di sputi. Almeno una delle ragioni che rendono la distanza siderale, come se tra lei e loro ci fosse un baratro, è in quel registro sotto al braccio. C’è un’altra ragione: lei giudica e condanna, come se i banchi verdi sui quali incrociano le braccia fossero tanti banchi d’imputati. Ce n’è un’altra ancora. Lei li ignora, deve rispettare il programma ministeriale ed è frustrata perché non ci riesce. Le sue esternazioni isteriche non dissimulano neanche la sua volontà di reprimere le loro tensioni, le loro confuse aspirazioni, il loro caos. I ragazzi e le ragazze di cui parlo recitano il copione che gli è stato assegnato su un palcoscenico stretto, dall’aria viziata, che scricchiola sotto i loro piedi, che pare quasi cedere da un momento all’altro. Loro ne sono consapevoli più di qualsiasi adulto. Mariarca, tredici anni, una scheggia che non riesce a starsene quieta, una continua e imprevedibile deflagrazione d’impulsi. «Marià perché sei nervosa?». «Ma sta vita è ‘na merda, la gente è cattiva, è tutto uno schifo, non si può stare qua, manca l’aria».
“Forse, io devo accettare tutte le norme del campo: ogni degradazione, ogni pazienza. Non posso scavalcare questa rete spinata / mentre al tuo grido innocente non c’è risposta” (Elsa Morante). Più o meno vestono firmati, sembrano identici ma sono diversi, curano l’immagine fino all’auto-celebrazione ossessiva di sé. In tasca hanno gli I-phone ma non hanno i soldi per caricare le schede, si lamentano che non ci sta una lira, se devono spostarsi hanno bisogno di un mezzo altrimenti restano là dove sono. Tutti, chi più chi meno consapevolmente, custodiscono un senso di colpa che si traduce in vergogna e in una molteplicità di reazioni tra le mura di una classe, spesso opprimente, incapace di contenere le irrefrenabili pulsioni di ognuno. Per molti di loro la felicità consiste nell’andare via da lì, perché nel rione come nel ghetto il peso della colpa è insopportabile e ingiusto. La condanna senza appello dell’insegnante conferma ciò che intuiscono. E te ne accorgi, ogni giorno, perché alcuni di loro stanno in guardia, sulla difensiva, perché provocano e ripetono continuamente che non sanno fare niente, che non vogliono niente, che si sfastéreano, che non gli interessa, che non ci credono, che se ne fregano, che non vogliono sapere niente.
«Pisani che ci fai ancora seduto sul banco? Pisani SCENDI DA QUEL BANCO! Ma a casa tua mamma ti fa sedere sul tavolo? Scendi se non vuoi una sospensione». Pisani non risponde neanche. Magari ha la mamma agli arresti domiciliari da due anni, deve scontare altri quattro mesi e quella neanche lo sa. Voi dovete sapere che Pisani di nome fa Mimmo e di contronome ‘o serpente, abita nel Bronx di San Giovanni e a vederlo veramente assomiglia a un rettile. Secco secco, il pomo d’Adamo pronunciato, i capelli biondissimi e lunghi, un viso smagrito e appuntito. Quattordici anni, bocciato l’anno scorso, ha l’insegnante di sostegno. Di tanto in tanto farfuglia qualcosa che sembra non avere senso. Ma che importa il senso in un luogo privo di senso come una scuola media? Insieme a Genny fanno una coppia emarginata dal resto della classe. Genny non parla, è indifferente, beffardo, strafottente, a tratti triste, sembra sempre che sia altrove con la testa e i pensieri. Un ragazzo di un’altra scuola mi aveva parlato di lui e di uno scippo finito male perché Genny balbetta, e nel momento cruciale non ha saputo minacciare la vittima dello scippo. «Io gli dissi, Gennà primme e fa e scipp’ ea mparà a parlà, ‘o frat’». Si schiattava dalle risate mentre lo raccontava. Chissà se è vero. L’ultima volta che ho visto Genny in classe, mostrava a Mimmo il tatuaggio appena inciso sulla parte interna dell’avambraccio sinistro: “Vincenzo”, in lettere gotiche. «Chi è Vincenzo, Gennà?». «Mio zio», rispose senza neanche guardarmi. Non aveva altro da aggiungere.
Anche Stefania. Nella sua autobiografia aveva scritto di non avere troppe pretese, tranne quella di un futuro tranquillo e senza problemi, possibilmente diverso rispetto al presente. Dietro al collo, nascosti dai capelli aveva marchiati sulla pelle due nomi e una frase: “Enzo e Tonino. Spero di stare con voi almeno in paradiso”. Chiunque in classe le portava un tacito rispetto. I ragazzi prendevano in giro tutti ma a lei la lasciavano in pace. Stefania, dal canto suo, era sempre tramortita dal sonno.
Maria guardava come se di fronte avesse avuto il suo acerrimo nemico, teneva il sangue agli occhi e aggrediva implacabilmente, però se la prendevate bene a Maria potevate strappargli un grande sorriso smaliziato, e a quel punto dovevate darle l’attenzione che richiedeva, altrimenti ripiombava nel disprezzo verso tutti. Da un quadro disegnò una riproduzione con estrema perizia. Il giorno dell’arresto di Babbà, Maria leggeva una pagina del quotidiano locale, m’indicò una foto e disse che quello era un suo parente. Suo padre è detenuto nella casa circondariale di Pagliarelli a Palermo. Michela era seduta al suo fianco, aggiunse che suo padre invece stava a Secondigliano, «ma nun te preoccupà, stamm attrezzat’». Federica dal suo smartphone ascoltava una canzone della paranza dei Gigli di Barra, l’Insuperabile, dal titolo Reportage: Cronaca: in prima pagina, ‘a festa nosta. Giudice, dimme che ce sta a giudicà, si è tradizione e ‘na cultura, è storia e ll’ata rispettà. Nun ce giudicate perché purtamme a mala annummenata, sta festa nosta è tale e quale a ll’ate. Immagini, indagini… Parlene, i mass media parlene, mettono in gioco a dignità e na populaziona sana. Nun ce giudicate se al mondo esistono e pregiudicate, che colpa po ttenè chistu llignamme, si zomp e abballa assieme a tutte quante, è na passione ca ncaten e cor, e figlie e chesta terra cca…
Qualche giorno dopo i carabinieri vennero a scuola per un incontro sulla legalità. Maria quella mattina non venne. Michela sbuffava mentre uno dei due carabinieri con il pizzetto nero e una voce simile a una supplica portava a termine l’intervento. Ciro Valda, Macchiulella, l’avevano sparato qualche giorno prima a pochi metri dalla scuola. «Io lo conoscevo. Abitava di fronte casa mia». Sorrideva, Filomena. «Quello aveva accoltellato la moglie».
«Ma che staje ricenn’!?». Sapevi vagamente mentre loro sapevano tutto. Avevano visto e sentito, conoscevano, emulavano. «V’abbuffamm’ e bbott’!». Alfredo di Barra si riferiva ad alcuni suoi coetanei di Ponticelli. «Vottete a ffa e rrapin’. A spaccimm t’a fatt omm!». Antonio le lanciava lì queste frasi, le urlava all’improvviso senza pretese di comprensione.
Quella mattina il padre di Marco venne a scuola, Marco entrò in classe ed esclamò: «Tuttappost’, nun m’a vattut’». «Rafè lo conoscevi?». «Comm’!» E il volto diventò un blocco di pensieri ineffabili, lo sguardo si fece cupo, all’improvviso grave, austero. Raffaele, lo zio in carcere per estorsione, apparve più grande di almeno dieci anni nel giro di un’espressione. «Qualche guaio avrà fatto», diceva un altro. Enzo si alzò di scatto: «Fatemi vedere il giornale».
«Prussò lo sapete che vi dico?». Marco fece una pausa, aveva il volto devastato dall’acne. Gli ho detto almeno venti volte che non sono un professore. «Prussò secondo me… Vabbuò prussò faciteme sta zitt’». Intervenne Enzo dopo aver letto la cronaca: «Prussò a verità è che San Giuann’ è addiventate a succursale e Secondigliano». Avevano ucciso Ciro Varrello, detto Banana. Ventiquattro anni.
Un clan ogni trenta metri. I D’Amico i Mazzarella i Formicola, i Casella i Reale i Rinaldi. Fabbriche dismesse, camion e container. Ordinanze di custodia cautelare in carcere, estorsioni, falsi invalidi, traffico di armi, traffico e spaccio di stupefacenti, soldi con gli interessi, euro e dollari falsi, un tasso di disoccupazione del quaranta per cento. San Giovanni a Teduccio è il ricordo della puzza di nafta all’uscita dell’autostrada. Il passato? Totore da bambino scendeva per la Croce del Lagno e andava a tuffarsi nella lota, teneva una decina d’anni e le pezze al culo. Giocava a pallone sulla residenziale, quando ancora non era asfaltata, insieme a Cuccariello. Frequentava un circolo in cui si giocava a zecchinetta. Doveva portare i soldi a casa. Suo padre faceva l’operaio nel reparto più fetente della Montecatini, a contatto con l’ammoniaca dalla mattina alla sera. A tredici anni Totore andò a lavorare prima in una fabbrica di pelle e poi in altre officine della zona, che a quei tempi ce n’erano. A vederlo adesso pare orgoglioso, lo sentite affermare con una sicumera fastidiosa che tiene settant’anni e che fatica da settantacinque anni. Scherza. Ogni giovedì va al cimitero a portare i fiori a nonna Felicia, suo fratello Rosario e suo padre, che morì di tumore a quarant’anni, quando lui era appena maggiorenne. L’azienda invece di pagare l’indennizzo propose a Totore il suo posto in fabbrica. Nel frattempo mise su famiglia e decise di andare via da San Giovanni. Le fabbriche chiusero una dopo l’altra a partire dagli anni Ottanta.
Il rione Pazzigno. Schiere di palazzine a forma di elle capovolta. Il palo ti guarda ma non ti vede, lo sfondo è invaso da un giardinetto, una ciminiera e una fabbrica abbandonata. Tonino, sedici anni, si fa chiamare ‘O Malese. È agli arresti domiciliari, i carabinieri l’accompagnano e lo vanno a prendere a scuola. Tonino l’aveva ripetuto mille volte. «’O Males’ , ‘O Males’. Ij song ‘O Males’».
«Andrè ij m’abboffe r’evere. Tien’ nu fazzolett? M’agge fatte o cocòs». Non lontano da quel rione un altro rione, poi un altro ancora, e un altro. Bronx, Pazzigno, rione Villa, rione Baronessa, aret’ a quarantasei. Superi il ponte dei francesi e dimentichi il mare sul lato destro. Della sua assenza, neanche la percezione. Tempo fa andai a vederlo dalla terrazza della biblioteca Antonio Labriola.
Una volta a San Giovanni il patrono venne scortato dalla polizia nel corso della processione. Quando i clan della zona imposero che la statua doveva indossare il lutto al braccio in onore dei morti ammazzati, sospesero la festa. Il ritorno del santo tra le vie del quartiereavvenne a bordo di un furgoncino, dopo tredici anni. Due camionette, una volante della polizia e gli uomini della Protezione civile scortavano la statua.
“Vivo in un quartiere dove non si vive tanto bene, dovremmo stare sempre attenti a quei ‘colpi di pistola’ che ci sono ogni tanto. Odio questo posto, ma purtroppo qui ho la mia vita, la mia scuola, la mia famiglia. Ho tredici anni. Per me questo quartiere fa schifo. Il mio hobby è di andarmene fuori dall’Italia. La mia paura più grande è che mio padre ritorni di nuovo in carcere. Il quartiere in cui vivo è sporco, vendono droga e sparano, ci sono parecchi blitz. Il mio quartiere d’inverno è molto solagno, è come nel cimitero, però abbiamo un parco che ci possiamo divertire. Il mio passato non è stato bello. La mia paura è di perdere una persona cara”.
Carmine voleva disegnare. Gli diedi un foglio e me lo restituì dopo una mezz’oretta: una pistola, fatta bene. Sopra c’era scritto “Clan dei c.”, è una fiction che danno su canale cinque. ‘O Males’ è uno dei protagonisti. Ecco perché Tonino si faceva chiamare in quel modo.
Tra i muri sporchi delle scale, dopo una settimana apparvero nuove scritte. “Antonio Minichini ci manchi, resterai sempre nei nostri cuori”. L’avevano ucciso qualche giorno prima ma lui continuava a vivere sui social network: «Se sapessi come mi sento… vorrei evadere… vuless murì ‘nno ssacce, l’unica cosa che so è ca senz’ e te non si può stare…».
Quando mi chiesero di leggere l’articolo di cronaca del duplice omicidio, tutti restarono in silenzio ad ascoltare. Antonio era stato ucciso là fuori. Franco e Pasquale si sedettero al mio fianco perché volevano guardare la pagina del giornale, dopodiché cominciarono a litigare sulla versione dei fatti. Dal silenzio si passò al caos totale. Franco e Pasquale si rifiutarono di discuterne insieme agli altri, e quando chiedemmo di cosa parlavano all’improvviso restarono zitti. Uno di loro indicò la foto di un uomo e riferendosi al suo compagno disse:
«Questo è Cristian, guarda qua». «Chi è Cristian?». «No nient’…». (andrea bottalico)
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