Sono usciti in questi ultimi mesi due libri che parlano di musica neomelodica, e che si prefiggono di indagare – da punti di vista e con modalità diverse – il rapporto tra il genere musicale e il sistema della criminalità organizzata napoletana.
Il primo è Napoli sotto traccia. Musica neomelodica e marginalità sociale, dell’antropologo newyorchese Jason Pine. Pine parla nello stesso modo in cui un americano parlerebbe di certe cose agli americani (e infatti il libro è una traduzione del volume pubblicato negli Stati Uniti dall’università del Minnesota), rispolverando una terminologia desueta e fastidiosa, focalizzando la sua attenzione sulla musica napoletana “intesa come arte di arrangiarsi”.
Il testo è molto contraddittorio. Nella sua premessa Pine dice di voler indagare le sfumature lasciando parlare i fatti, senza interferire con il racconto degli oltre dieci anni spesi a Napoli frequentando il circuito di cantanti, impresari, musicisti e ascoltatori, ma il libro si articola su una direttrice completamente opposta. Nelle oltre trecento pagine Pine non viene mai al punto, se non per raccontare storie abbastanza scontate che evidenziano le modalità paracamorriste di tre o quattro manager del settore. Nei suoi anni napoletani Pine ha capito che il mondo della musica neomelodica, più che una complessa sottocultura popolare sarebbe il riflesso della città: una galassia in cui tutti sono camorristi – o quantomeno saltimbanchi, imbroglioni, ricattatori –, dal parcheggiatore abusivo fino all’impresario musicale. Nel libro tutti vengono giudicati e condannati, processati in lunghe digressioni o liquidati con espressioni inappellabili, come quando Pine nomina gli impresari, accompagnandoli sempre con l’espressione “boss”, o cita i canali di televisione locale preoccupandosi di specificare che si tratta (talvolta dice “probabilmente”) di stazioni “pirata”. O ancora quando parla dei quartieri di periferia, di cui dovrebbe abbozzare almeno una sommaria analisi, preoccupandosi invece di specificarne solo “l’alta densità criminale”.
Anche per quanto riguarda l’estenuante parte documentale sulla camorra, si tratta in sostanza di un libro inutile (non si capisce come la casa editrice Donzelli abbia potuto ritenere interessante proporlo ai lettori italiani) per chiunque abbia dato anche solo distrattamente un’occhiata al Gomorra di Saviano o ai testi di Isaia Sales, ma persino ai folkloristici episodi del professor Bellavista, sul pizzo da pagare da un commerciante a due clan rivali, perché il suo negozio si trova proprio sulla linea di confine dei due regni criminali. È evidente come l’autore parta da una tesi precostituita (sono tutti camorristi) e arrivi alle sue conclusioni sulla base di una casistica parziale e confusa (tra l’altro piena di errori grossolani, come quando attribuisce la nota canzone Ma si vene stasera a Rosario Miraggio invece che ad Alessio). La materia è totalmente decontestualizzata, che si tratti dei rapporti tra i cantanti e la camorra – ma nel libro si parla quasi sempre di mezze tacche del Sistema – o della sceneggiata, della quale si analizza in particolar modo la figura della donna, oggetto di possesso e colpevole della rottura degli equilibri sociali, parlandone come se Assunta Spina non fosse stata scritta nella Napoli degli anni Dieci ma in un paese scandinavo alle soglie del Duemila.
Qualche mese prima del libro di Pine è uscito Malamusica. Neomelodia e legalità (Liguori Editore) di Michelangelo Pascali, ricercatore universitario che si occupa prevalentemente di sociologia dei processi economici e del lavoro. In questo caso interesse dell’autore è porre in analisi la semplicistica accusa secondo cui la musica neomelodica sarebbe l’espressione culturale predominante del mondo camorristico. Pascali affronta l’argomento in maniera ponderata, senza tacere i legami tra questi due mondi, ma confinando la casistica in questione a una percentuale risibile rispetto all’enorme mole di produzione neomelodica. Una delle sue preoccupazioni è tra l’altro quella di evitare le accuse di giustificazionismo portate a un certo mondo culturale, e recentemente, in maniera diretta, alla scena musicale cittadina. Il modo migliore per farlo è fondare la trattazione partendo da una mole documentativa consistente e soprattutto eterogenea.
Malamusica, in effetti, è un libro che quasi ne racchiude due: Pascali espone le sue teorie secondo il principio che “le parole sono pietre”, ripetendosi soltanto in rare occasioni, e comunque spendendo la metà del tempo – e dello spazio – per esporre e ri-analizzare il corpus delle fonti. Ne viene fuori un interessante documento che racchiude gli articoli di cronaca più superficiali (ma molto utili per inquadrare il rapporto tra la borghesia “acculturata” cittadina e la musica neomelodica) e i punti di vista critici più approfonditi e validi. Pascali fa in sostanza quello che Pine avrebbe dovuto fare: ri-immergere nel proprio contesto la materia, procedendo caso per caso, cercando di coglierne le sfumature. In particolare si sofferma sulla necessaria distinzione tra le canzoni scritte su quello che si può definire il “tema carcerario” (che raccontano la paura di finire dietro le sbarre, e poi la solitudine, la lontananza dagli affetti, la perdita della libertà, spesso persino il pentimento per reati commessi alla luce di una condizione di marginalità sociale) e quelle che fanno riferimento (le identifica in un dieci per cento circa) ai temi della vita di clan, del killer, dell’omertà, della quotidianità camorrista.
Il libro sviluppa – partendo da queste distinzioni – una fondamentale riflessione sul ruolo che la musica neomelodica svolge nel circuito culturale cittadino e sulle ragioni di un giudizio così duro nei suoi confronti, tanto da parte della critica, quanto da parte dell’“altra mezza Napoli”. Un giudizio i cui canoni di esclusione sono sociali più che estetici o musicali, e che trovano le proprie origini, tra le altre cose, proprio in quella tanto decantata prossimità geografica tra le classi. Una convivenza forzata che ha finito per accentuare le differenze tra borghesia, proletariato e sottoproletariato cittadino, esacerbando le reciproche incompatibilità e intolleranze. Si tratta di un libro, insomma, che ci dice tanto di chi canta e di chi ascolta, ma a ben vedere ci racconta efficacemente, partendo da un certo tipo di musica, anche tutto il resto della città. (riccardo rosa)
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