“It certainly does not detract from the dignity of science to come own off its pedestal – and from the people science gains new strenght”. (R. Virchow, Disease, life and man. Stanford University Press, 1958)
Nel 1848 Rudolf Virchow, giovane professore di anatomia, viene incaricato dal governo prussiano di studiare un’epidemia di tifo petecchiale scoppiata nella regione della Slesia. Oggi sappiamo che la malattia, di cui è responsabile un germe chiamato Rickettsia prowazekii, si trasmette tra umani tramite i pidocchi ma a quel tempo l’eziologia delle patologie infettive era oscura. L’osservazione sul campo fornì a Virchow gli spunti per spostare l’attenzione dai pazienti e i loro sintomi al contesto generale in cui vivevano, sviluppando una teoria epidemiologica che, per la prima volta, inquadrava le condizioni sociali come elementi fondamentali per la diffusione della patologia. La stessa metodologia fu applicata nello studio di un’epidemia di colera e un focolaio di tubercolosi a Berlino, tra il 1848 e il 1849 [1].
Secondo la sua analisi, povertà, scarsa alimentazione e mancanza di igiene aumentavano la suscettibilità a fattori esterni come il clima dei freddi inverni prussiani o le malattie infettive che, da soli, non sarebbero stati in grado di provocare un’epidemia. Sulla base di queste osservazioni si convinse, quindi, che la medicina può anche riuscire a prolungare la vita degli esseri umani ma il miglioramento delle condizioni sociali può raggiungere lo stesso risultato in tempi minori. La portata delle intuizioni del patologo tedesco è enorme ed ha aperto una prospettiva nuova alla comprensione delle patologie, ponendo in primo piano la necessità di un servizio di medicina pubblico e fondato sulla prevenzione. L’attenzione al ruolo delle condizioni sociali nella genesi delle patologie di massa diventò un elemento della lotta complessiva dell’uomo per la sopravvivenza. Nacque così la medicina sociale.
La prospettiva di Virchow attuava una trasformazione radicale con cui si spostava l’attenzione dal paziente al contesto generale, intuendo la necessità di un approccio olistico ai problemi sanitari, che ha aperto la strada a una nuova stagione della scienza medica. Il passaggio successivo, dopo decenni di studi e ricerche, è stato l’allargamento dell’ottica dalle condizioni materiali della singola società al rapporto complessivo con la natura, un passaggio necessario, soprattutto nell’era capitalista. Il paziente è un essere umano che vive in un determinato ambiente, con il quale interagisce e non può essere considerato un essere isolato ma parte di un contesto che la clinica, da sola, non può comprendere. Questi problemi di enorme complessità necessitano, perciò, di un approccio multidisciplinare e integrato fra campi differenti del sapere, che guardano alla salute umana, a quella animale e a quella ambientale con uno sguardo unico. Proprio quello che serve per affrontare la pandemia che stiamo vivendo. Ci salverà un vaccino? Lo speriamo tutti ma la soluzione farmacologica ha come target il nuovo Coronavirus ma non risolve il problema generale e il suo impatto sociale, economico e culturale. A un secolo e mezzo dalle acute osservazioni del patologo tedesco, possiamo provare ad allargare l’orizzonte angusto della clausura cui siamo relegati per affrontare il problema nella sua interezza, quello del rapporto complessivo tra umani e ambiente, al quale l’emergere di questa pandemia è direttamente correlato.
Tra le molteplici attività di ricerca della sua vita, Virchow dedicò particolare attenzione a un problema che colpiva periodicamente diverse popolazioni, legato al rapporto con gli animali che costituivano parte integrante dei nuclei familiari. Nel suo scritto del 1855 Zoonoses: Infectionen durch contagiosen Thergifte (Zoonosi: infezioni da veleni animali contagiosi), Virchow coniò il termine che indica questa ampia gamma di patologie che la sua “teoria cellulare” ha permesso di studiare in maniera nuova. Il complesso di queste intuizioni unito alla teoria dei determinanti sociali nella genesi e diffusione delle epidemie completa un quadro analitico che, dal passato, getta luce sul periodo oscuro che stiamo vivendo. L’infezione che in questi mesi sta colpendo il mondo appartiene a questo ampio capitolo della scienza medica umana e animale, le zoonosi. La sua origine e diffusione dipendono dalle condizioni del rapporto che gli umani hanno imposto alla natura.
Fin dai primi giorni del contagio si era diffusa l’ipotesi che a introdurre il nuovo virus fra gli umani fosse stato un animale. I sospetti si concentrarono subito sui pipistrelli mentre alcuni studiosi misero sul banco degli imputati il pangolino, un formichiere molto ricercato in Cina per la sua carne e per il commercio delle squame utilizzate nella medicina tradizionale. Nei primi giorni di febbraio un gruppo di scienziati dell’Università di Guangzhou annunciava una corrispondenza genetica vicina al 100% tra campioni di Coronavirus dei pangolini e il nuovo virus che stava infettando l’uomo. In realtà quei risultati erano relativi solo a una sezione del patrimonio genetico e in seguito ulteriori ricerche hanno accertato che l’animale da cui il nuovo Coronavirus è arrivato è il pipistrello [2].
L’origine cinese dell’epidemia ha prodotto un effetto prevedibile, nell’Occidente infestato, prima che dal virus, da nazionalismo e razzismo. Il governatore del Veneto, Zaia, non ha perso occasione per mostrare al mondo il carattere culturale del movimento politico egemone nel nostro settentrione, accusando i cinesi di “mangiare topi vivi” e additandoli come untori. Detto da un uomo del Veneto, in cui la sagacia popolare fa risiedere i “magnagatti” sembra quasi una trovata comica. Senza tenere conto che il suddetto, in quanto italiano, parla anche a nome di un popolo che annovera nella sua dieta oltre a mucche, suini, ovini e pollame, asini, lumache, rane, pesci e molluschi di ogni genere oltre che frattaglie di diversi animali.
Il rischio del passaggio di agenti patogeni dagli animali all’uomo, in realtà, è un fenomeno molto comune e comprende anche malattie non infettive, derivanti dal rapporto tra umani e animali, non solo selvatici. Nel caso di animali provenienti dalla wildlife come il pipistrello “ferro di cavallo” cinese, il contatto con i virus che questi animali ospitano è particolarmente critico dal punto di vista immunologico soprattutto quando, come in questo caso, il virus arriva per la prima volta a contatto con il nostro organismo.
La dinamica del passaggio tra animale e uomo è ancora tutta da chiarire e costituisce un capitolo affascinante della virologia che da tempo studia questo fenomeno, chiamato “spillover”, il “salto di specie”. Insieme agli elementi biologici di base è, però, il caso di indagare proprio quel rapporto tra specie differenti per comprendere i termini di una questione biologica estremamente complessa. Studiare la patologia, individuare il patogeno, analizzare il rapporto tra umano e ambiente in cui il contatto biologico avviene, valutare l’impatto dei determinanti ambientali nella diffusione del contagio. Speriamo che il fantasma di Virchow torni ad aggirarsi per l’Europa. (antonio bove – continua…)
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[1] Ackerneckt EH. Rudolf Virchow: Doctor, Statesman, Antropologist. Madison WI: University of Wisconsin Press, 1953
[2] Hu D et al. Genomic characterization and infectivity of a novel SARS-like coronavirus in Chinese bats. Emerg Microbes Infect 2018;7:154
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