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recensioni
18 Luglio 2017

Da parte loro nessuna domanda imbarazzante. A Milano, tra Elena Ferrante e Wislawa Szymborska

Giusy Palumbo
(archivio disegni napolimonitor)
(archivio disegni napolimonitor)

«Giochiamo insieme?». Esordiva così, nello spettacolo Ponti in core del 1996, la compagnia Fanny & Alexander, mettendo in scena due bambini che giocavano con le leggende dei santi. Oggi, nello spettacolo Da parte loro nessuna domanda imbarazzante prodotto con Ateliersi, a giocare sono le due bambine del romanzo L’amica geniale di Elena Ferrante, interpretate da Chiara Lagani e Fiorenza Menni, nell’atto in cui gettano per reciproca sfida le loro bambole nelle profondità di uno scantinato nero. Iniziano con una lettura del testo, fedelissima anche per questioni legate ai diritti d’autore, e continuano raccontando una storia immaginata, un fotoromanzo animato dove le due bambole prendono vita, in un gioco di bimbe in cui le due donne si perdono.

Attraversate dalle parole di Elena Ferrante le due attrici si fanno corpi spinali, con cuore, cervello e coraggio. Abitano e liberano lo spazio anatomico del teatro La Cucina, ex mensa dell’Ospedale Psichiatrico Paolo Pini di Milano, dove da più di vent’anni la cooperativa sociale La Fabbrica di Olinda organizza il festival Da vicino nessuno è normale, ricordando alla città che gli spazi sono abitati da desideri, da liberare, appunto.

Dove c’erano bollitori e pentoloni ora ci sono i corpi delle due attrici, che sanno cose che la testa non sa ancora. Si muovono tra geometria e follia, usano le mani per spostare l’aria, forse il senso, battono i piedi, scalzi, per inseguire una parola, fermarla nell’istante, con la spavalderia e lo sgomento che solo i bambini sanno avere, perché “non sanno il significato di ieri, dell’altro ieri, e nemmeno di domani, tutto è questo, ora” come si legge nelle prime pagine del romanzo.

Sulla scena tutto è bello e pauroso, come piantine crescono i semi del pensiero, l’orale diventa la festa dello scritto, la storia è detta dai corpi delle attrici, le voci aprono altri sensi, soprattutto quando si alterano – si smarginano scriverebbe Elena Ferrante – lasciando aperti spiragli in cui infilarsi, specchi attraverso i quali passare.

È nella seconda parte dello spettacolo, quando le bambole si svegliano dal buio, che la storia lascia le sue tracce, sospesa tra un macabro rito infantile e la scoperta dell’altro. Qui i testi di Chiara Lagani si mescolano a quelli di Lyman Frank Baum, alle filastrocche di Toti Scialoja e ai versi di Wislawa Szymborska – è lei ad ispirare il titolo dello spettacolo – per creare un avvicendamento fantasmagorico di luci, figure e suoni dal quale verrebbe voglia di fuggire, chiudendo gli occhi.

Quando li riapro la stanza è al buio, lo spettacolo è finito, si riaccendono le luci, si battono le mani, i sogni travestiti da incubi sono svaniti. Mi vengono in mente i versi di un poeta polacco: “Siamo come palpebre, dicono le cose / sfioriamo l’occhio e l’aria, l’oscurità e la luce”, uno strano desiderio di ascoltare gli oggetti mi prende.

Uscendo dal teatro c’è un viale di alberi e lucine da attraversare, in fondo, poco prima dell’enorme Ginkgo biloba, mi aspetta una Madonna. È voltata di spalle, è strana la sua posizione, guarda verso il bosco, non verso di me. L’ho notata appena arrivata ma solo ora ho capito che sta giocando. (giusy palumbo)

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