Tutti conoscono il Teatro Augusteo. Tutti conoscono Peppino di Capri.
Le parti in questione si sono incontrate sabato 15 ottobre 2016 nell’unica data partenopea di Giuseppe Faiella, che, come gli eroi olimpici potevano essere appellati secondo la terra di appartenenza, così ha eletto la sua isola di provenienza a “cognomen”. A rappresentare il pubblico di Monitor, ancora sotto shock per la sconfitta casalinga del primo pomeriggio contro la Roma, c’eravamo noi. Anche perché tra i prezzi dello stadio imposti dal DeLa e quelli dell’Augusteo la differenza è davvero poca: almeno trentacinque euro, fino ai cinquantacinque, passando per i quarantacinque. Ma va bene così. Hai la storia davanti, nella sua corrispondenza biunivoca di artista e pubblico. Entrambi in forma smagliante.
La vicinanza tra il San Carlo e l’Augusteo dovrebbe far riflettere sulla differenza, nonostante le affinità, tra la tradizione colta e la tradizione pop. Sono teatri per un certo tipo di pubblico. E ne conservano tutto il fascino. La vocazione di entrambi è l’intrattenimento; diversi soltanto i condimenti. Orbene, si è rischiato il tutto esaurito, dopo i sold out (innamorat?) del Sistina, a Roma. Tanto che l’inizio del concerto slitta inevitabilmente alle 21:20, per permettere al pubblico un lento e comodo posizionamento. Ingannare l’attesa è la cosa meno difficile del mondo, tra una chiacchiera dal sapore di inciucio e un selfie. A parte le maschere, tutte ragazze, sulla punta delle dita conti gli under trenta. E ti resta una mano libera pure per indicarli. Prima che il sipario sia levato, si accumula un alveare di suono davvero stocastico nella sua temporaneità. E anche molto più sonoro che quello del San Carlo. Quanto è costata, tra biglietto, parrucchiere, abito, parcheggio e gioielli la serata, alla signora in terza fila? Forse meno che all’impomatato suo accompagnatore, che sfoggia ancora il cartellino sull’abito.
Dopo l’annuncio: «Si prega di accomodarsi in sala: tra cinque minuti inizia il concerto», parte il primo applauso della serata, quello di incitamento. Un ta-ta-tatatà che ritma l’intonazione degli strumenti. Frammento di musica filologicamente acusmatica data la presenza della tenda. La sala è calda. Si leva il sipario. Applauso secondo.
Sapientemente disposti, i musicisti occupano il simmetrico. Le donne (le vocalist e il quartetto d’archi) vestite di bianco; i maschi (il pianista, il batterista, i due chitarristi e il bassista) vestiti di nero. Quando Peppino entra in scena, vestito di bianco, e si siede al suo pianoforte, bianco, è il tripudio. Occupa il centro, mentre l’ensemble musicale lo contorna. Applauso fragoroso.
Fare i suoni in un teatro la cui struttura non è pensata per ospitarli è davvero cosa difficile. Il rischio del rimbombo sempre alle porte. I primi brani servono anche per adeguare la musica alla struttura, dal momento che non può esserci un viceversa. L’azione scenica che contestualizza il tour “Una musica infinita” in teatro è giocata con il falso di una diffusione radiofonica che serve a ritmare lo spettacolo, a dire qualcosa in più che la musica. Insomma, sebbene Peppino faccia musica da quando la stessa passava per le radio a valvole, ora la sua voce passa attraverso una (falsa) diretta streaming su radioinfinity.
Parte E tu ci sei, seguita dal quinto applauso. Gesto di partecipazione del pubblico, stavolta; non è solo l’applauso ma anche ogni parola urlata per esprimere la propria vicinanza a Peppino, alle volte facendogli pure perdere il filo del discorso. Mannaggia tutto. Però, il pubblico non vuole restare imbrigliato nelle poltrone. Unica pecca, davvero: la mancanza dei suoi Rockers, sostituiti dai suoni di una sezione fiati registrata e mandata in onda quando serve; la ristrutturazione degli ensemble musicali passa anche attraverso revisioni simili, che inseriscono un quartetto d’archi, molto più appariscente e delicato, soprattutto quando i musicisti diventano polifunzionali. La pecca si nota quando passiamo ai pezzi swing, animati dall’intermittenza delle luci che recitano una parte decisiva nell’avvicinare il pubblico al palco. Ogni brano è racchiuso in un applauso iniziale e conclusivo, che di fatto incornicia segmenti della equilibrata durata di tre minuti. Il quindicesimo applauso annuncia Meglio di così, che propongo come nuovo pezzo per i duetti da karaoke, a rimpiazzare Acqua e sale e Un nuovo bacio che hanno decisamente rotto. Segue Roberta, in un arrangiamento che premia la formazione presente, dove le mani non sono più impegnate ad applaudire ma filmano quanto succede. Così, dopo l’accendino, è la luce degli smartphone a illuminare i concerti.
Il Peppino poliglotta non può esimersi dalla canzone d’autore napoletana. Su Palomma ‘e notte (testo di Salvatore di Giacomo) il secondo violino si leva in piedi, lascia lo strumento sul pianoforte e inizia a volteggiare sul palco, sulle note del delicato piano solo e della calda voce del caprese. Seguono ritmati brani che motivano un pubblico sempre più euforico. Chissà quello brasiliano del mese prossimo come reagirà.
Il passaggio sulle elezioni americane, sulla misoginia del biondo aspirante presidente repubblicano, serve per introdurre il tema della donna come musa ispiratrice della sua canzone: Le donne amano. Un cuore palpita nel digiwall (la cui grafica è la cosa meno curata di quest’opera d’arte tendente alla totalità). Sempre in tema di muse ispiratrici, è il momento di definire le modificazioni di una Napoli le cui atmosfere non son più quelle di una volta. Senza parlare di meglio o peggio, chiaro è che i momenti d’ispirazione sono diversi; ma ciò non va a discapito delle possibilità di fare ancora una canzone d’autore. «Pensieri che diventano parole, parole che diventano canzoni». Tutto si scioglie nel ventitreesimo applauso della serata. Prima dell’inevitabile tuffo nel passato: cinquantotto anni fa, di Calise e Rossi, Nun è peccato. Ancora oggi, che sound. Che fascino. C’è chi utilizza la nota vocale di whatsapp per risolvere l’auraticità del momento vissuto, inviando la traccia di suono fissato al gruppo Family. Seguono altri brani in un mix atomico che fa scendere le lacrimucce. Applauso scrociante.
Presenta tutti i musicisti, tutti campani tranne il secondo chitarrista, di Pavia, sebbene di adozione partenopea. Il tempo è maturo per presentare le ultime produzioni, quelle contemporanee, che necessitano essere assimilate dal pubblico, dunque ruminate. Questo è propriamente il compito delle radio. La cinquecentesima canzone edita: I miei capelli bianchi, giusto per fare il bilancio di una vita. Applauso commosso del pubblico, invecchiato insieme alle sue canzoni. Ha la voce un po’ rotta, Peppino. Ma alcuni degli astanti si preoccupano esclusivamente di dirgli: Aiz’ ‘a voce. Nell’omaggio a Califano, sulle note di Un grande amore e niente più, il pubblico canta insieme a Peppino. Poi in Reginella diventa la voce accompagnata dalle mani del pianista. È arrivato il momento tanto atteso del selfie con il pubblico, in una prateria di lucciole led. Quattro scatti, da cui estrapolarne uno. Devo tagliare qualcosa che altrimenti mi tagliano ancora di più. Seguono altri ventitré applausi, ritmati dalle richieste di champagne. Solo il tempo di dirvi che ci ha fatto ballare tutti con i suoi mitici twist direttamente dagli anni Sessanta, tipo Saint Tropez.
Ed eccolo, il momento che vale il prezzo del biglietto: trenta secondi di intro al pianoforte e poi, Champagne. Ed è epica applicata. Segue assalto spontaneo del pubblico al palco. Sono tutti colti da furore dionisiaco? Mi chiedo solo come potranno mai pulire la traccia audio se la propria voce supera quella di Peppino (argh!). Si chiude il sipario. Per due minuti. Come non concedere il bis? Ops, il tris? Le condizioni restano immutate: pubblico in visibilio sotto il palco, mentre lo show goes on. Saluti. Tanti saluti, calorosissimi.
Come in uno stadio il pubblico lascia sonoramente in fila più o meno ordinata gli spalti che l’avevano ospitato, così gli over trenta della serata abbandonano il posto sonoramente mantenuto per circa centosessanta minuti. Data l’assoluta velocità con cui sono trascorsi, è innegabile la definizione di musica leggera. Certo è che raramente è possibile vedere un pubblico così felice uscire dalla sala. Peppino Di Capri sa ancora farlo. Gli altri al massimo hanno bisogno della televisione. O degli stadi. (antonio mastrogiacomo)
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