Romanzo d’esordio di Piera Ventre, Palazzokimbo (edito da Neri Pozza) racconta l’infanzia di Stella – Stelladamore, come la chiamano a scuola – intrecciata alla vita comunitaria di un edificio ubicato a Ponticelli, nell’area orientale di Napoli, che prende il nome dall’insegna pubblicitaria che lo sovrasta. Il palazzo – di otto piani e abitato da una settantina di famiglie – è di proprietà della Saint Gobain, antica fabbrica di vetri della zona, e non ha nulla che lo distingue dai grigi caseggiati disseminati lungo le strade che portano in questa cupa periferia della città, dove le ultime macchie di verde lasciano lentamente il posto a ciminiere, strade, sopraelevate, cemento, raffinerie.
Palazzokimbo appare così come uno dei tanti “non luoghi” del mondo globalizzato. Ma questo microcosmo labirintico, fatto di rampe, scale, gradini, dove vivono decine di famiglie operaie – compresa, all’ottavo piano, quella numerosa di Stella, composta da zii, fratelli, papà, mamma e nonni paterni –, visto più dà vicino, dà immediatamente l’idea di una comunità solidale, la cui anima segreta è intrinsecamente legata allo storico insediamento industriale; un opificio che – pur costituendo, insieme ad altri come la Mobil Chimica, una fonte di inquinamento – ne plasma e ne scandisce i tempi della vita: “La fabbrica allignava nelle cellule il suo nutrimento contraffatto, spargeva la crosta del pane con l’ossido di ferro, una sostanza instabile pronta a deflagrare. Finiva nelle nostre bocche insieme al grano”, scrive l’autrice.
Palazzokimbo è popolato da un’umanità multiforme, con le sue superstizioni e i suoi riti arcaici; strani personaggi, come Consiglia, la stravagante amica di Stella, Zazzà, zia Marina, o la stessa madre di Stellina, nell’incomprensibile dialetto come nell’esibito comportamento auto-rappresentativo, sembrano sempre impegnati in un’ininterrotta recita collettiva. Stella ritrae queste strane figure con l’occhio disincantato di una bambina, mentre ci racconta del suo mondo interiore, delle trasformazioni del suo corpo e della sua vita, del difficile rapporto con la madre, che la opprime nella sua ansia di libertà col suo autoritarismo. Questo irrisolto conflitto materno è un tema non marginale del romanzo e fa pensare a un rapporto, mai del tutto pacificato, tra il suo sguardo più intimo e una comunità che sente estranea e ostile. Diverso, e meno problematico, il legame col padre, operaio alla Saint-Gobain che, impegnato in turni massacranti, lascia a sua moglie la guida e la risoluzione dei problemi della loro complessa famiglia allargata.
Fa da sfondo alla narrazione lo scenario sociale e politico degli anni Sessanta e Settanta del Novecento: dalle lotte operaie al compromesso storico di Berlinguer, dall’omicidio di Guido Rossa all’abbattimento del Dc9 a Ustica, fino all’assassinio di Moro da parte delle Br. Naturalmente, in questa generale mutazione antropologica, oltre che politica, Napoli, con le sue mai risolte contraddizioni, è parte essenziale del racconto. Ed è una Napoli buia, lontana dalla retorica e dal folclore locale.
Nell’orizzonte umano e poetico della Ventre, ciò che più sorprende è, come si accennava, la relazione tra il tormentato mondo interiore della protagonista e il cupo paesaggio esterno. Come se la soggettività della piccola Stella non fosse altro che lo specchio deformato dell’oscuro mondo che la stringe in un abbraccio letale. Simbolo di questa lacerazione, sono le pagine (forse le più crudeli ed efficaci del libro) che descrivono minuziosamente l’uccisione del maiale e l’orrore della bambina che vi assiste e che vive questa esperienza con il medesimo, straziante terrore dell’animale; un dolore incancellabile che si ripeterà quando la madre le sottrarrà, con brutale cinismo, Otto, il suo inseparabile gatto.
Uno dei momenti più significativi del romanzo riguarda il colera, che colpì la città agli inizi degli anni Settanta. Chi visse quell’umiliante esperienza non farà fatica a riconoscersi nell’atmosfera del tempo: le file per la vaccinazione, l’ossessione per la pulizia del cibo, i bambini impauriti, l’odore acre della creolina. Dovunque, dal centro alla periferia, a Napoli dominava un sentimento di angoscia e di paura, e sembra condivisibile il pensiero della scrittrice quando osserva che “il Colera fu un pugno sul castello di sabbia che era la città”; da questo “denudamento metropolitano”, tuttavia, la città, anche se per breve tempo, riuscì a risollevarsi; poi subentrò una nuova classe politica e prevalse un devastante processo di deindustrializzazione che contribuì al dominio territoriale della criminalità organizzata.
Proprio la zona industriale, dove insiste Palazzokimbo, fu, negli anni Ottanta, l’emblema di questa fase involutiva dell’intera area metropolitana di Napoli. Può apparire strano, ma i modi d’intrecciare relazioni tra le persone, gli usi e i costumi di questo piccolo mondo tra Ponticelli e San Giovanni, non differivano molto da quelli dei quartieri più popolari del centro storico. Palazzokimbo, “con la sua bocca spalancata che ingoiava ogni cosa e dove tutti si facevano i fatti di tutti”, dà appunto l’idea di una parte di città trasferita in blocco in una zona che la borghesia cittadina ha fatto sempre fatica a riconoscere. La differenza di questa realtà con i vicoli del centro, consisteva, nell’Ottocento come in gran parte del Novecento, nella cultura del lavoro e in una variegata presenza di attività industriali; presenza testimoniata, del resto, in tempi diversi, anche da opere letterarie di scrittori come Roberto Bracco e Carlo Bernari. E vale la pena ricordare, al riguardo, che si deve proprio a queste radici nel mondo del lavoro, se proprio qui, tra le strade e i palazzi della periferia orientale, gruppi di lavoratori delle fabbriche, nel 1943, misero in fuga nazisti e fascisti pagando un prezzo altissimo alla loro lotta con la strage alla Vetreria Ricciardi, dove furono trucidati ventinove operai.
In Palazzokimbo, di questa lunga tradizione operaia, si avverte ancora una eco (ma siamo negli anni Settanta dello scorso secolo), soprattutto nella lotta di Salvatore, padre di Stella, contro la cassa integrazione alla Saint Gobain, nel lavoro a domicilio della madre, nelle difficoltà economiche e nella dignità delle famiglie di far fronte alla crisi. La Ventre racconta questo mondo invisibile con una scrittura lieve, in cui affiorano momenti di preziosa intensità lirica. Come quando, proprio nelle pagine finali dedicate al terremoto del 1980, la madre indica a sua figlia Stella un pezzo di natura che sopravvive isolato nel fosco paesaggio industriale che avvolge gli edifici della zona. È un albero: solo un albero che svetta nel cielo, incurante dei gas di scarico, dell’autostrada, del cemento. Un’immagine molto bella, che fa pensare a una resistenza, a un possibile riscatto civile della città che può venire solo dalla cultura e dalla dignità del lavoro. (antonio grieco)
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