Il 30 gennaio 2019 la regione Umbria emana un bando per la creazione e lo sviluppo di una filiera corta per la coltivazione e la lavorazione del nocciolo, per un budget complessivo di due milioni e seicentomila euro, su un totale di settecento ettari da destinare al progetto. Si replica quello che accadde nel Lazio quando la Regione firmò, il 13 maggio 2015, l’Accordo di Programma per lo Sviluppo della coltivazione delle nocciole, in seguito alla precedente stipula del Protocollo d’intesa tra Ismea (Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare) e Ferrero. Entrambi i finanziamenti fanno capo al Psr (Programma di sviluppo rurale) 2014-2020 grazie al quale la sola regione Umbria sarà destinataria di un budget complessivo di novecento trenta milioni di euro. Il nuovo bando prevede la possibilità di costituire aggregazioni tra agricoltori coinvolti nella realizzazione degli impianti di produzione delle nocciole e soggetti intermediari per la lavorazione e la vendita, nei fatti, la Ferrero Hazelnut Company, la divisione interna del gruppo Ferrero.
Si prevede che, nel giro di cinque anni, i terreni dedicati alla monocultura del noccioleto raggiungeranno i ventimila ettari (cioè il trenta per cento in più dell’attuale superficie). Tra i vari encomi al progetto, quello del governatore della Toscana, il quale afferma si tratti di una coltura dall’alto valore economico che potrebbe mitigare il fenomeno dell’abbandono delle aree rurali interne. Lo stesso dichiarava Donato Lisanti, rappresentate della rete d’impresa Basilicata in Guscio che il 5 giugno 2018 ha sottoscritto il contratto d’acquisto a lungo termine con la Ferrero attraverso il quale quest’ultima si impegna, per i prossimi venti anni, all’acquisto dei tre quarti delle nocciole prodotte dalla rete.
Tra gli effetti nefasti della monocoltura dei noccioleti, la distruzione della biodiversità, l’impoverimento del terreno, l’ingente consumo di acqua e l’inquinamento dell’ambiente dovuto all’uso intenso di erbicidi e fitofarmaci, quello su cui mi soffermo sono i volti, le paure e i desideri degli abitanti di queste terre. Umbria, Lazio e Toscana sono oggi animate da reti di piccoli agricoltori e produttori, gli “invisibili” delle aree interne: attività umane prima che lavorative, rispettose e grate al paesaggio, la cui sopravvivenza è strettamente legata alla salute dell’ambiente circostante. Come afferma un allevatore della zona: «Io ho scelto questo territorio e se da domani non potrò più recuperare il foraggio per le mie mucche dai produttori locali perché tutti avranno optato per i noccioleti, o comunque si troveranno nel raggio d’influenza dell’inquinamento prodotto, io semplicemente non potrò più portare avanti le mie scelte di vita. Ci stanno rubando la terra da sotto i piedi». Un altro allevatore del bolsaneto manifesta la paura di non avere più la terra per il pascolo delle sue capre; una famiglia della comunità diffusa narra di come la bellezza naturalistica dell’Umbria sia stata il criterio di scelta del luogo dove crescere i propri figli mentre una coppia di americani ha scelto questo territorio dopo una vita di accumulo di stanchezza da “primo mondo”.
Nel Lazio, il Biodistretto della Via America e delle Forre è in prima linea nel denunciare gli effetti dell’operazione Nocciola Italia a partire dall’esperienza degli agricoltori della Tuscia. L’atto stesso di costituirsi in Biodistretto sembra oggi un posizionamento di difesa contro tali “accaparratori di terra”; eppure, ciò che è accaduto nell’alto Lazio dimostra come gli sforzi per creare reti istituzionali non siano spesso sufficienti.
Quando il territorio diviene “spazio”, si riproduce il discorso d’illocalità, di wilderness, che – come ricorda Iain Chambers in Sulla soglia del mondo. L’altrove dell’Occidente, edito da Mimesis nel 2003 –, servì per giustificare l’accaparramento coloniale delle terre, la sottrazione di spazio appunto, ai nativi che non contemplavano il senso della proprietà della terra. E di ciò ancora oggi si tratta: nuove forme di colonialismo da parte di multinazionali legittimate dagli apparati statali. Paola Zaccaria, nel suo bellissimo testo, La lingua che ospita, riedito da Meltemi nel 2017, propone di sostituire agli spazi vuoti i “luoghi”, intesi come strettamente connessi ai corpi che li abitano. Per parlare realmente di politiche contro l’abbandono delle aree interne, si dovrebbe allora parlare di luoghi e si dovrebbe dare voce a chi quei luoghi li agisce.
Il 16 marzo, le reti territoriali di Toscana, Lazio e Umbria, organizzeranno un convegno sul Piano Nocciole Italia, presso il Palazzo dei Sette a Orvieto, in cui si darà spazio a professionisti del settore e docenti, al fine di delineare un quadro veritiero degli effetti sul territorio dell’estensione della monocultura. Ci saranno anche i produttori e le produttrici della zona, gli agricoltori e le agricoltrici, allevatori e allevatrici, gli/le invisibili, anima delle aree rurali interne. (lucia turco)
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