Piccole storie dalle montagne di Guerrero è una raccolta di brevi ritratti, testimonianze, narrazioni, messe insieme lungo la strada che conduce a Vicente, villaggio messicano così chiamato perché proprio lì pare abbia soggiornato Vicente Guerrero nel corso di una delle campagne militari per la liberazione del Messico. Vicente si trova nel municipio di Metlatonoc, nella Regione della montagna dello stato di Guerrero. A pochi chilometri da Vicente si trova il villaggio di Nopal, dove si muovono altri dei personaggi raccontati in questi testi.
Prima della loro comparsa, c’è stata lunga notte di viaggio, da Città del Messico a Tlapa. È un viaggio che tiene insieme due mondi distanti, quello dei grattacieli della città e quello delle strade fangose di montagna. Ma la notte è il tempo migliore per viaggiare, da queste parti: c’è un rischio minore di essere paralizzati nel traffico o nei blocchi stradali dei gruppi di manifestanti.
Lo stato di Guerrero era un tempo famoso per le spiagge di Acapulco, frequentate dalle star di Hollywood. Oggi è il catalizzatore mediatico di tanti disastri: dai cicloni alla povertà diffusa, dalla violenza al narcotraffico che occupa, con la forza delle armi, interi territori. Oggi, Guerrero, ha come principale fonte economica non più il turismo, ma la coltivazione e il commercio di droghe. In particolar modo, la Regione della montagna è un luogo isolato e difficile da raggiungere. Nella segregazione di quel territorio c’è la solitudine di un popolo rimasto ai margini dei processi di modernità e di occidentalizzazione che hanno coinvolto il Messico e l’America Latina. Qui, la polvere di secoli passati è ancora appiccicata ai vestiti dei suoi abitanti. Già dopo una notte di viaggio, s’è incollata subito anche ai miei.
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Marcos
Marcos ha venticinque anni e un corpo esile sempre esposto ai raggi solari. A lui il sole non piace per niente ma fin da quando era adolescente è stato costretto a lavorare nei campi e a coltivare la amapola.
Marcos ama la notte e aspetta con impazienza che cali il giorno. I suoi lineamenti rivelano un’identità indigena che abbraccia tanti territori del sud del Messico. Lui e sua madre sono nati e vissuti a Vicente, mentre suo padre, scomparso prematuramente qualche anno fa, era originario dello stato di Oaxaca. I suoi genitori sono entrambi di stirpe mixteca. Suo padre era sempre stato orgoglioso della sua identità indigena ed era appassionato della storia di liberazione del suo popolo. Gli piacevano figure come El cura Hidalgo, Morelos, e Vicente Guerrero, protagonisti delle lotte d’indipendenza dalla madrepatria spagnola. Ma si era appassionato anche alla rivoluzione fallita di Pancho Villa e di Emiliano Zapata. Prima che nascesse suo figlio, aveva seguito le vicende del Subcomandante Marcos, che negli anni Ottanta, insieme ad altri combattenti, aveva preso possesso di vari comuni del Chiapas per ribellarsi al potere dello stato messicano, il quale in accordo con i grandi potentati economici stava opprimendo la popolazione indigena, non garantendogli il diritto alla terra. Il padre di Marcos credeva nel riscatto dei popoli indigeni, che, unendosi, avrebbero potuto instaurare nei propri territori una democrazia partecipativa e una maggiore distribuzione delle ricchezze, nelle mani dei contadini. E così chiamò suo figlio Marcos, immaginando che le generazioni future avrebbero realizzato questo ideale.
Marcos tuttavia vive un tempo in cui i popoli indigeni del sud stanno divenendo sempre più schiavi dei narcotrafficanti. Questi controllano molti territori e in zone come questa, la sudditanza è più sottile: la gente è lasciata libera purché produca per loro la amapola.
Così Marcos lavora nei campi. Gli piace vegliarli, di notte. Ama contemplare la vallata buia dove ci sono le distese di papavero. Nell’oscurità tutto tace. Si ascoltano solo le ricetrasmittenti che avvertono della vicinanza delle camionette dell’esercito, che nei loro raid, diurni o notturni, bruciano tutte le piante che considerano illegali. Durante la notte la tenebra è dappertutto e si possono ammirare, con occhio attento, milioni di stelle. Solo la luna disegna le montagne e crea il riflesso sulle acque del fiume che dista pochi metri dai campi. Talvolta Marcos si munisce di una canna da lui costruita e inganna il tempo dedicandosi alla pesca. Marcos ama pescare di notte.
Da qualche mese, Marcos è stato nominato poliziotto comunitario. Ora porta sempre con sé il suo fucile; non ci si separa neanche quando si reca di notte ai campi; ormai l’ha sostituito alla canna da pesca. Lo incontro al raduno di zona della polizia comunitaria. Quest’oggi, nel campo da basket di Vicente, è riunito tutto il pueblo: poliziotti provenienti da vari stati e zone confinanti si sono riuniti per celebrare la costituzione del corpo di polizia comunitaria di Vicente. Il motivo per il quale la gente del villaggio ha deciso di garantire al meglio la propria sicurezza è legato ai problemi d’instabilità che sta vivendo il pueblo da un anno a questa parte.
La polizia comunitaria è un’istituzione nata molto prima, negli anni Novanta, per garantire l’incolumità degli abitanti negli spostamenti tra i villaggi e le città. La gente delle montagne ha subìto negli ultimi decenni un aumento della violenza e della criminalità alla quale la giustizia statale, con i propri corpi di polizia, non riesce a far fronte. Così, dopo un lungo processo di decisione, e ispirandosi alle idee di autodeterminazione del Subcomandante Marcos, le comunità della montagna hanno creato un sistema autonomo di controllo del territorio, in cui la sicurezza e la giustizia sono intese come una responsabilità collettiva. I poliziotti comunitari, infatti, svolgendo un servizio per la gente, non ricevono alcun compenso.
Durante l’assemblea si succedono vari interventi. C’è chi parla in nahuatl, chi in mixteco, chi in tlapaneco. Ma tutti i discorsi sono poi tradotti in spagnolo. Qualcuno, alla fine del suo intervento, urla: «El pueblo unido jamas serà vencido», riecheggiando stagioni passate di lotta sociale. Mentre ascolto i vari discorsi, osservo Marcos da lontano, seduto con gli altri suoi compagni in prima fila. Hanno tutti il fucile poggiato a terra e la canna stretta fra le mani. Lui osserva con sguardo fiero la sua arma. Con essa pensa di poter difendere la sua gente dagli abusi dello Stato e della criminalità. Chissà se suo padre sarebbe stato fiero di lui. Chissà se il suo nome si rivelerà la sua salvezza o la sua condanna. (delio montieri)
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