Il documentario racconta la vita e la carriera di Pino Mauro, attore e cantante che tra gli anni Cinquanta e Ottanta è stato tra i più amati a Napoli, attraversando con la sua produzione diversi generi che vanno dalla canzone melodica classica a quella di “malavita”, riproponendo, anzi rinnovandola, la canzone di giacca e la sceneggiata. Se Pino Mauro, però, nel corso della sua lunga carriera ha cantato anche d’amore, di problematiche sociali, della vita dei vicoli di Napoli e dei napoletani, il suo nome è legato nell’immaginario di buona parte della città a storie di guappi, coltelli e vendette; un legame manifesto e tutt’altro che rinnegato dallo stesso cantante, che gli ha fruttato un successo enorme alla metà degli anni Settanta, ma anche una serie di disavventure giudiziarie, da cui è poi uscito senza conseguenze, se non quelle di una ingiusta carcerazione (due anni di carcere preventivo all’Ucciardone di Palermo) e di una devastante interruzione della propria ascesa artistica.
«Non è facile far capire a certi intellettuali – dice Mauro – che aver cantato le storie di strada, di coltelli e delitti d’onore, non fa di me un delinquente. Una stigmatizzazione che non hanno vissuto altri come Bovio, Di Giacomo e Viviani e che non vivono i rapper, tutti artisti che hanno raccontato e raccontano la realtà di una città bella e complicata. Invece, ancora oggi, complice una vicenda giudiziaria da cui sono uscito immacolato, quando si parla di me c’è chi marcia su certe cose. A volte in buona fede, il più delle volte in cattiva».
Il film di Luglio e Gargano è un omaggio a questo artista e ha il pregio di dedicare una porzione di presente a un personaggio che sembra appartenere a un’altra epoca, ma che ancora attira su di sé interesse, dibattito, discussioni. Nella carrellata di immagini scandita dalla musica si alternano apparizioni recenti del privato e del pubblico del cantante con vecchi filmati di repertorio, come la presentazione di Arnoldo Foà a un’edizione televisiva in bianco e nero della sceneggiata Ammore e Gelusia, alcune scene cult dei film di cui Mauro è stato protagonista, o immagini estratte da pellicole anni Settanta che raccontano, per esempio, la pratica dei funerali in barca fatti ai contrabbandieri di sigarette morti in mare, tra corone gettate nel golfo e vedove inconsolabili.
A tratti il documentario asseconda un po’ troppo l’impulso allo sdoganamento di cui si fa portatore il protagonista della storia, uno sdoganamento che negli ultimi anni è già passato per libri, concerti, dischi e lavori acclamati dalla critica, come la Trianon Opera andata in onda in Rai lo scorso aprile con la regia di Roberto De Simone.
Più che la necessità di riconsiderare la figura e il percorso artistico di Pino Mauro, infatti, ciò che emerge di più interessante dal documentario sono le sfumature intime del personaggio, la sua enfasi nel raccontarsi e vivere il quotidiano, il modo di intendere l’arte tramandatogli da antichi maestri, il disincanto con cui fotografa il mondo dello spettacolo e della musica. Se Pino Mauro appare oggi, pubblicamente, ancora il personaggio guascone e sicuro di sé degli anni addietro, il film mostra come una carriera caratterizzata da vertiginose ascese e rovinose cadute abbia lasciato dei segni profondi nell’anima e nel carattere dell’artista, e riesce in alcuni momenti a restituire la vena malinconica di un uomo ultraottantenne che ha vissuto una vita estrema. È un vecchio leone ancora ruggente, quello che viene fuori dal film, soprattutto quando si muove davanti al suo pubblico o ai suoi colleghi, sulle tavole di un palcoscenico e davanti alla telecamera; ma è anche un uomo rasserenato, che sembra aver fatto pace con i suoi demoni, e che nel backstage de Il ladro di cardellini (2020) chiacchiera con la truccatrice raccontandole con una vena nostalgica dei decenni passati, dei suoi occhi che “facevano svenire le donne”, concludendo però che gli anni passano per tutti e in fondo va bene così. È la stessa vena un po’ malinconica con cui Pino Mauro ha salutato a fine serata il pubblico del cinema Astra, quando ha concluso il suo intervento con la voce un po’ emozionata: «Spero di rivedervi ancora in un’altra occasione». Poi un lungo applauso e giù il sipario, ancora un’altra notte. (riccardo rosa)
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