Sono anni ormai che non faccio più l’abbonamento. Quando torno allo stadio gli amici con cui andavo fino a qualche tempo fa mi chiamano occasionale. Da quando il Napoli è tornato in Europa l’ho seguito un po’ ovunque: a Boras, freddissimo paese svedese che vide i primi due gol di Cavani con la maglia azzurra, a Villarreal, deserto e anonimo agglomerato sulla costa valenciana, a Liverpool, a Manchester, a Londra (senza biglietto, partita vista in una salumeria milanese colma di napoletani, al gol di Inler quasi andò in frantumi il vetro del bancone). Ricordo ancora nitidamente i volti di quattro napoletani che, pensando che Liverpool fosse nei pressi di Londra, presero un tassì dall’aeroporto di Stansted: «Anfield Road, settore ospiti». Poi si vantarono di aver speso solo cinquecento pound. Soldi e sesso nei discorsi più ricorrenti. A Manchester un uomo alto e largo quanto una cassapanca si lamentava del fatto che in una discoteca non aveva avuto il tempo di posare il giubbino che subito gli erano saltate al collo tre ragazze vogliose. Questo, invece, è il racconto dell’ultima trasferta europea, quella di Plzeň, quella da cui il Napoli è uscito dalla coppa Uefa senza neanche provarci.
Con l’amico Peppe parto per Praga due giorni prima. Giriamo senza meta per il centro città per due giorni, tramortiti dal gelo. Dopo un’ora in strada ti accorgi che sulla punta delle scarpe si è formata la brina. Il termometro segna dieci sotto zero. Per un attimo penso a Ulan Bator, la capitale più fredda del mondo, dove d’inverno la gente fa quello che deve a meno quaranta. Non smette mai di nevicare e gli unici che giocano a palle di neve a Praga siamo noi. Non sono neanche palle, in realtà: quando la si compatta, la neve forma un blocco di ghiaccio duro, che spaccato in testa ha poco di divertente. Tra un cheeseburger e l’altro (Peppe tollera solo questo tipo di alimentazione fuori dalla sua città natale) vediamo Mala Strana, la torre dell’orologio, il ponte Carlo, la fermata della metropolitana Mustek e tanti altri posti che avevo già visto una decina d’anni fa, in gita con la scuola. Mi rendo conto che il costo della vita da allora è decuplicato, prima un biglietto della metro costava tre corone, che in euro non erano neanche convertibili, pochi centesimi. Ora costa un euro e quaranta. Alloggiamo all’ostello Rosemary, in una camera per sei persone dove siamo solo in due. Al mattino un’affannosa donna ci sveglia, ci squadra, poi pronuncia alcune parole ceche, agita le braccia come Mazzone intimando al letto in basso di fare più argine a centrocampo, infine chiude la porta e se ne va.
Il giorno della partita è il giovedì. Non ci saranno treni per i napoletani che devono tornare a Praga. Indecisi – Plzeň è a cento chilometri da Praga – decidiamo di prendere il numero di una compagnia di tassì locale che ci informa che per il ritorno ci vogliono mille e ottocento corone. Se troviamo altri due ragazzi e dividiamo, sono diciotto euro a testa. Mezz’ora prima della partenza Peppe riceve un messaggio. Un gruppo di dieci persone, tra i quali un amico, è arrivato a Praga. Hanno deciso di affittare un pulmino, andata fino allo stadio e ritorno al centro di Praga, trenta euro a persona. Ci aggreghiamo. Incontriamo Gerone, poderoso ragazzo che in dieci secondi divora un hot dog e tenta l’approccio con alcune ragazze invano. Ci porta all’hotel Ambassador, dove ha appuntamento con gli altri compagni di viaggio. Nella hall dell’albergo (di cui non è ospite), Gerone si siede, toglie il giubbino e resta a mezze maniche: «Uagliù sedetevi, questa è casa mia», ci dice. Dopo dieci minuti siamo in dodici, la hall si riempie di fumo. Alcuni sono reduci dal primo giro in centro: massaggi thailandesi e strip bar. Conoscono già i posti migliori: «All’Hot Pepper nun se po’ chiava’, al Darling qualcuna bbona se trova, al Rio te fanno pava’ l’entrata».
Fin da subito Gerone parla a tutti dello ShowPark, fantomatico locale a Praga 7 dove si fa sesso a pagamento. «Ammo’, stasera ve port’ a chiava’!». Dopo ore di discussione nella hall dell’albergo decidiamo di sbrigarci, manca poco alla partita. La reception chiama per noi un pulmino che fittiamo in dieci. Tre ragazzi decidono di restare a Praga per girare alcuni locali thailandesi. Il furgone tarda a venire: «This is not a five star hotel!», si lamenta il nostro portavoce. Il viaggio in pulmino è la parte migliore della trasferta. Lo ShowPark torna in molti discorsi, ma inevitabilmente il racconto si sposta sulle vite personali. Due degli undici parlano, tutti gli altri ascoltano e si riposano. I due scoprono amicizie in comune, chiedono che fine abbia fatto quel tale o quell’altro, ricordano i momenti vissuti insieme senza ancora conoscersi. Quattro figli uno, quattro l’altro. Gerone ha qualche dubbio: «Secondo me è arrivato il momento di smetterla con queste trasferte. Ho quasi trent’anni, è arrivato il momento di pensare alle cose mie, me voglio spusa’. O no?». Gli altri due, quarantenni, sorridono: «Non siamo le persone adatte per rispondere. Abbiamo lasciato otto figli a casa». Il pulmino ci lascia all’albergo dove alloggia il Napoli, a cento metri dallo stadio. Il giubbino si copre di neve in pochi minuti, il freddo diventa insopportabile.
Nel tragitto verso lo stadio ci affianca Maui, che aveva atteso la squadra in albergo. Il folcloristico tifoso del Napoli, malvoluto un po’ da tutti, chiede a Gerone qualche biglietto in più da regalare a un amico, proprietario di diversi night club a Praga, e «che saprà sdebitarsi». Noi ce ne andiamo. Entriamo allo stadio con un’ora di anticipo. Anche a queste temperature un gruppo di tifosi resta a petto nudo. Evidentemente non sosteniamo a dovere, perché qualcuno grida che abbiamo già «la fica in testa». Quanti napoletani ci saranno dopo allo ShowPark? Mentre me lo chiedo noto un Calaiò inebetito dal freddo, ha la faccia di chi vorrebbe stare sotto il piumino ancora qualche ora. «Il gulash è come, che ti devo dire…». «A me sembra la genovese». Si, è come la genovese, esatto. Grandi pacche sulle spalle. Sul due a zero, col Napoli ormai fuori dai giochi da un pezzo, si alza un coro: «Tutta la notte coca e mignotte!». Certo che ci vogliono forti motivazioni a venire fin qui per vedere il paffuto Horvath mostrarci le cinque dita, una per ogni gol subito dal Napoli tra andata e ritorno. E uscendo dallo stadio a questo penso, rientrando in Italia a questo penso. Mi tornano in mente Calaiò e gli altri che al fischio finale vengono sotto la curva. Ci applaudono e noi ricambiamo. Cosa applaudo, cosa applaudiamo?
Il tifoso si osserva e dice a sé stesso: «Per assistere a questa disfatta ho fatto chilometri. Nessuno ama il Napoli quanto me». Per il suo amore chiede riconoscenza: l’applauso dei calciatori. E gli applausi dalle gradinate rendono omaggio a chi riconosce la fede dei tifosi. In altri casi, se il Napoli avesse giocato così – senza motivazioni, senza spingere o rischiare mai un passaggio – ci sarebbero state critiche. A Plzeň no, Plzeň è stata la celebrazione dell’amore tra i tifosi e la loro fede. Un amore onanistico. (davide schiavon)
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