Ira facit versus, dicevano i latini. È la rabbia che genera poesia. Non la bellezza, non l’estasi, non il dolore o almeno non soltanto. E a questo aggiungete un piccolo particolare: che forse i CoSang e i Fuossera ignorano tutto questo. Loro scrivono strofe “perché non trovano pace”, punto. E quando avranno trovato la pace al massimo ne riparleremo… Nel frattempo, questi ragazzi si pongono domande cercando di rispondere a se stessi, prima di tutto, attraverso le rime, sputate e non baciate: Testi dettati dall’urgenza, che meriterebbero una nuova forma di esegesi. Qui più che altrove, è necessario evocare la “crudezza” di questa poesia e la potenza narrativa, simile a una sequenza infinita di fotogrammi. Qui vogliamo sottolineare la loro (spontanea) volontà di raccontare la città nelle sue molteplici dimensioni, da una precisa prospettiva e attraverso le feritoie che il rap lascia aperte a chi è disposto ad ascoltare.
Quella che proponiamo è una conversazione. Caotica, frammentata, dissonante e disordinata. Lacunosa come una chiacchierata. Come spesso accade in certi casi, alcune delle domande che meritavano di essere poste agli esponenti di “Poesia cruda”, sono emerse soltanto quando la conversazione è terminata. Per esempio, sarebbe stato interessante chiedergli dove si sarebbero trovati oggi se non fosse stato per la musica, quale strada avrebbero percorso, quali scelte avrebbero fatto – qualora avessero avuto la possibilità di scegliere.
Eppure, pensandoci meglio, ogni domanda non posta trova nelle strofe di alcuni dei loro testi la vera risposta. Bisogna solo ascoltare – niente di più complicato, oggi più di ieri – tenendo ben presente l’idea che “quando l’orecchio si affina diventa un occhio”.
Chi sono i CoSang? Chi è Fuossera? Chi è Poesia Cruda?
(‘Ntò) Siamo dei ragazzi di Piscinola e Marianella, ascoltiamo e facciamo rap da quando eravamo adolescenti. Ci siamo incontrati attraverso varie strade, io e Luca, Gianni Peppe e Ciccio. Abbiamo condiviso per molto tempo la stessa passione e le stesse situazioni. Dopo anni di militanza nell’hip hop napoletano, a modo nostro, siamo arrivati a fare degli album insieme. È uscito prima un singolo (Poesia cruda) nel 2004, che ha anticipato l’album dei CoSang, Chi more pe mme nel 2005, dopodiché esce anche l’album dei Fuossera (Spirito e materia). Io penso che dopo questi anni di produzioni, featuring, eccetera, ci siamo agganciati alla scena europea in maniera degna. Siamo cresciuti. “Poesia cruda” è nata come un pezzo, poi si è consacrata come crew con il passare del tempo. Tutto nasce dall’amicizia, perché ci piaceva fare le cose insieme. Anche come etichetta, era soltanto immaginata, mai registrata. I dischi li produciamo noi in maniera indipendente.
Tra la lavorazione del primo disco e il secondo la città ha avuto uno dei suoi ciclici declini. Questi sussulti, alti e bassi, si avvertono nella vostra musica, nelle vostre strofe. Perché voi siete in qualche modo fotografi della realtà.
(‘Ntò) Musicalmente c’è stata un’evoluzione. Quello che abbiamo percepito è che dopo tutte le tarantelle, e lo dice anche il titolo di un pezzo dei Fuossera, si è passati a una “calma apparente”. Una calma finta.
(Luchè) Nel 2005 c’era un bordello di pazzi, i morti, non si capiva niente. Dopodiché c’è stato lo sfruttamento di questo fenomeno, e noi ci siamo trovati in mezzo, sia inizialmente, perché i nostri testi parlavano di quelle storie là, che in un secondo momento, perché c’era chi pretendeva che noi prendessimo una posizione, che ci schierassimo… E sinceramente non è che la vita nostra ruota intorno a queste storie di cronaca nera, chiamiamola così. Quindi un po’ ci interessava e un po’ ci eravamo anche scocciati di questo modo di parlare di Napoli. Di conseguenza sono nati vari pezzi che prima non avremmo mai potuto immaginare. Al solito a Napoli vengono, ci sfruttano e poi alla fine tutti dimenticano. Nel bene e nel male… quasi sempre nel male. S’è visto pure nel caso di Mtv che non ci ha passato il singolo Indy-geni perché “trattasi di sofferto rap napoletano”, come diceva la mail che ci hanno mandato.
Come ascoltatore ho percepito che quando avete fatto il secondo disco è come se i media vi avessero un po’ ignorato per questa vostra presa di posizione.
(Luchè) Erano periodi diversi. Nel 2005 ci stavano i morti ogni giorno. Ma noi il disco l’avevamo scritto prima di tutto quel clamore mediatico.
(Sir Fernandez) E poi uno si scoccia di dover scrivere sempre di degrado, che tra l’altro col tempo aumenta al posto di diminuire. Perché i media hanno cambiato attenzione nei confronti dei CoSang? Te lo dico io: perché forse loro non raccontavano solo ed esclusivamente dei morti ammazzati.
(Luchè) Il problema è anche che non c’è un’industria musicale forte in Italia che ti permetta di fare musica e basta. Fin quando ci siamo trovati dentro a un contesto che ha riscosso così tanto clamore, allora si parla degli omicidi, si parla di criminalità organizzata, si parla di Gomorra e si parla dei CoSang, vabbuò… Una volta finito questo periodo, i giornali non se ne sono fottuti di noi e del nostro secondo disco. Allora il problema è questo. Che noi parliamo di alcune cose un po’ ghettizzate perché sono molto particolari e appartengono solo a una parte dell’Italia.
Spesso pure nella stessa Napoli, non tutti vivono quelle realtà che voi raccontate…
(Luchè) Assolutamente. Poi ci sta il fatto che siamo cresciuti noi come individui, di conseguenza in alcuni testi siamo stati molto più personali, in Vita Bona parliamo di noi, delle cose nostre.
(‘Ntò) Io credo che il disco cambia, ma la nostra ricerca no, nel senso che al massimo la nostra ricerca si è evoluta, intendo la ricerca fonetica. Questa disattenzione è la prova del fatto che non c’è interesse verso la nostra musicalità. Nessuno ci ha mai fatto una domanda sullo “stile” dei testi… Tieni presente che col primo album siamo usciti la prima volta con un articolo di sei pagine su Rolling Stone. Per te che hai fatto un album in quel momento, e sei indipendente, puoi immaginare la soddisfazione, poi dopo è avvenuto il tentativo di strumentalizzare la nostra musica. Forse se avessimo fatto i “Saviano del rap” sarebbero usciti più articoli sul nostro conto. Ma non abbiamo voluto cavalcare l’onda.
La cosa impressionante di Vita Bona è la sintesi. Prendi i testi di Ottanta novanta, Amic nemic… Ascoltando Momento d’onestà ho apprezzato molto lo sforzo che avete fatto per separarvi dal fenomeno mediatico del post Gomorra, ma ho anche pensato che per distaccarvi ancora di più forse avreste dovuto ignorare del tutto il fenomeno.
(‘Ntò) Sai cosa? Era diventato troppo insopportabile, da lì lo sfogo come per dire: “ci avete rotto il cazzo!” Io faccio la musica e basta… C’è da dire che il pezzo in questione non è neanche contro Saviano in sé ma è contro un fenomeno. Ci lamentavamo di chi, solo per farsi conoscere, cavalcava l’onda senza ritegno… È la decisione di non prendere posizioni di nessun genere, per essere liberi nella scrittura, liberi di fare la musica come vogliamo noi. Che se domani mattina mi sveglio e voglio parlare delle palline di ping pong, lo faccio e basta senza dover dare conto a nessuno.
Raccontateci del disco in uscita dei Fuossera.
(J One) Vi anticipo che conterrà molti testi in italiano. Il fatto è che noi finora ci siamo limitati, perché riuscivamo a comunicare soltanto con una parte della nazione in cui viviamo. Quindi a priori ci precludevamo dal comunicare con tutta l’Italia. Un mio pensiero non deve restare fermo qua. È una cosa che va contro l’idea di un artista. Non c’è niente di male ad aspirare a qualcosa in più.
Difficoltà nel comunicare i pensieri e le immagini attraverso la lingua italiana?
(Sir Fernandez) Inizialmente sì, è stato un bel passaggio. Anche nella padronanza della lingua. Siamo abituati a scrivere in dialetto, e quando abbiamo cominciato a musicare le parole in un’altra maniera è cambiato tutto. Ma alla fine è diventato molto semplice perché tu resti sempre uguale. Certo, devi adeguarti a un’altra forma espressiva. Quando pensi una cosa, che so, l’idea di un testo e la sviluppi in napoletano, sul momento ti viene il freddo addosso, anche perché il napoletano per noi tiene più anima. Però poi ci siamo resi conto che pure in lingua italiana si possono dire delle cose, magari pensi che il tuo pensiero puoi farlo arrivare anche a una persona di Roma, Arezzo, Bologna… perché un ragazzo di Bologna deve sentirsi i Fuossera o i CoSang e deve dire che non si capisce un cazzo? Per la serie, “è bellissimo, ma non capisco neanche una parola”.
Secondo questo discorso tu puoi fare rap in inglese e ti sente tutto il mondo.
(Sir Fernandez) Ma l’inglese non mi appartiene come lingua, sono nato in una città che sta in Italia, e qui si parla anche in italiano. C’è da dire che l’Italia è un paese provinciale, l’abbiamo riscontrato sulla nostra pelle. Sempre le stesse critiche. Anche se la nostra scelta di scrivere testi in italiano non deriva da queste ma dall’esigenza di farci capire; poi, ovviamente, non abbiamo abbandonato il nostro dialetto, il nostro gergo… E c’è stato pure un cambio di sound. Il nostro primo disco è pieno di atmosfere cupe, melodie molto malinconiche. Con quest’ultimo lavoro abbiamo cercato di fare anche delle cose più solari. La gente di Napoli che ci segue da sempre e che apprezza la nostra musica ha bisogno anche di un po’ di energia positiva.
In base a questo tipo di scelta stilistica, questo cambiamento, non avete notato nessun tipo di perdita nel linguaggio?
(Luchè) È ancora presto per dirlo ma dalle piccole cose che ho fatto dico di no. Anzi. Per me suona uguale. Noi abbiamo fatto due dischi in dialetto. Abbiamo visto fin dove si può arrivare: quando ci sta il fenomeno mediatico dietro piace a tutti, quando non c’è, tu sei il solito napoletano sofferto e non ci devi rompere il cazzo. Allora il discorso è questo: siamo consapevoli di essere i migliori scrittori in Italia a livello di rap, dobbiamo fare il disco in italiano… Il nostro è pure un dialetto stretto, e poi il napoletano lo schifano proprio: non se ne fottono, la vedono come una realtà lontana, c’è un ripudio… Nel rap vogliono il testo che si deve capire, del ragazzo che rappresenta un ambiente di strada, a Parma tanto per dire, se ne fregano. Ma questo vale anche qui, c’è una grossa parte di persone che i nostri testi, i termini che usiamo, non li capiscono. Cioè loro non hanno proprio idea della realtà che abbiamo vissuto noi negli anni passati e che viviamo oggi. C’è gente che vive in alcune parti di Napoli che ci vede proprio come se fossimo chissà quanto lontani…
Molti sono pure affascinati da questo, è come se conoscessero un “altro mondo” attraverso la vostra musica…
(Luchè ) Certo, ma ci vedono lontani al punto da non comprenderci per nulla…
(O Iank) Per farti capire… tutti quelli che hanno sempre ascoltato musica nei centri sociali, politicizzati eccetera, di tutto quel pubblico pochi provengono dalle periferie. Prendi quelli della nostra generazione, che hanno vissuto gli anni dei 99 Posse e degli Almamegretta – ma non per fare una citazione negativa – quelli che sono abituati ad ascoltare quel tipo di musica che fa Zulu a noi non ci capiscono…
(Luché) Sì, ma a Napoli puoi sempre riuscire a conquistarli, gli italiani scordateli, non ci riuscirai mai. Il problema è l’Italia, la maggior parte dei concerti sono in Italia. In Campania dopo aver suonato in quelle cinque, sei città è finita. Quelle altre quaranta città da fare in Italia… non ti capiscono! L’abbiamo fatto per cinque anni ormai. Mo’ dobbiamo vedere un attimo di crescere.
L’importante è non sentirsi limitati…
Infatti, il discorso è anche questo: se hai le metafore e i concetti, non li perdi se riesci a metterli bene in rima. Indipendentemente dal linguaggio che utilizzi. Non perdi niente. Inoltre c’è uno stimolo in più. Sai? L’italiano mi rilassa le tempie, quando rappo in napoletano mi incattivisco talmente…
Raccontaci il progetto della Diversidad a cui hai partecipato.
(Luchè) Si tratta di un progetto che racchiude una ventina di artisti provenienti da tutta Europa. Praticamente c’è un rapper che rappresenta ogni nazione. È stato finanziato dalla comunità europea, affinché potessimo incontrarci e favorire nuove collaborazioni. Siamo stati dieci giorni a Bruxelles a registrare il disco, tutto al volo, ci siamo incontrati e abbiamo fatto il disco.
E tutte quelle lingue dei rapper provenienti dai rispettivi paesi europei, sono tutte lingue nazionali?
Sì.
Quindi tu sei stato l’unico a fare strofe in dialetto? Interessante, se ci pensi il napoletano è una lingua internazionale in un certo senso…
(Luchè) Vero, anche se molti ignoranti italiani, se vai a leggere certi commenti, dicevano di non sentirsi rappresentati da uno che fa rime in dialetto napoletano. E perché? O sole mio non ti rappresenta quando vai in vacanza e la canti nel villaggio Valtour? Noi abbiamo affrontato queste situazioni per troppi anni… Qualche rapper straniero ha apprezzato molto il dialetto, ma questo perché il napoletano indubbiamente suona bene, per un italiano sembra inaccettabile perché non è la lingua sua. Uscirà il disco della Diversidad il 14 febbraio in Italia con l’etichetta indipendente del Piotta, e lui ha detto che al singolo per l’Italia bisognerebbe aggiungere una strofa in lingua italiana per le radio. Allora ci sono stati problemi per via delle mie strofe in dialetto, ma ho detto che avrei potuto anche scriverle tranquillamente in lingua italiana… Comunque ti dico che il disco nuovo si chiamerà Due napoletani in Italia. E ho detto tutto.
E le collaborazioni con i francesi come sono nate?
(Luchè) Con Akhenaton… ci chiamò lui. In Francia, nonostante il business sia molto grande, ancora amano fare “la musica ‘overa”. Ci tengono proprio a cacciare dischi culturalmente e artisticamente validi. Anche Akhenaton è di quella mentalità là, non ha voluto fare il featuring a distanza. Ci ha voluto conoscere, abbiamo passato un po’ di tempo assieme… E noi quindi siamo stati a Marsiglia tre giorni, siamo andati nello studio di Akhenaton. Lui è di origini ischitane e con noi parlava in italiano. La cattiva reputazione di Marsiglia oggi è del tutto immotivata, alla fine sembra Sorrento…
Dunque l’obiettivo puntato all’esterno (il quartiere, la strada) ma anche all’interno (le vostre esperienze personali, i sentimenti).
(Luchè) Noi siamo cresciuti in determinati quartieri e siamo fatti così. Anche un mio pensiero intimo, oppure il mio rapporto con una donna può riflettere tante altre cose che stanno dietro me. Nel senso che non è che tu certe cose le devi dire per forza in maniera diretta, emergono comunque, si intravedono. Il tuo pensiero è il riflesso del tuo retroterra. Adesso sento l’esigenza di fare una musica più personale, più mia. Sento che siamo cresciuti: parlare solo di problemi non va.
(‘Ntò) È anche perché certe cose non le vivi più.
(Luché) Fortunatamente! Non è una mia colpa. Il mio problema è che ho dovuto fare anni di tarantelle per campare. Sono stato per strada anni a cercare di fare qualcosa di soldi. Quella è la verità. Certo, le tarantelle fuori continuano a esserci e non le voglio ignorare, pure perché ogni cosa è collegata. Ma non ci si deve sentire obbligati… Molta gente va trovando che tu rimani sempre tale e quale. Ci deve stare il pensiero e la strofa su certe questioni. Però se devo basare tutta la mia musica su questo non va più bene. All’inizio eravamo così, avevamo quest’esigenza e non avevamo fatto ancora delle esperienze diverse. Otto anni fa noi stavamo sempre là, nel quartiere, adesso non è più così. Avevamo pure vent’anni. Con il tempo si cambia. E poi non è che tu se non stai di casa nella periferia non puoi rappare. I concetti, le idee… insomma, tu se hai una rabbia ce l’hai dentro. Certe esperienze le abbiamo fatte, adesso dobbiamo andare avanti. (andrea bottalico / cyro)
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