Benché l’invito delle persone più autorevoli, quelle che con l’atteggiamento, le parole, persino la postura, ti dicono di non farti prendere dal panico, di non dare retta a sprovveduti che pontificano dai social, ma di affidarsi ai medici, agli esperti, ai tecnici, alla scienza, questa del Coronavirus è la conclamata impotenza della scienza. La scienza non è mai pronta per l’emergenza, per l’improvviso esplodere di una eccezionalità – la scienza ha bisogno di tempo, per la ricerca, e ha bisogno di tempo, per scoprire un rimedio, perché deve verificare, incrociare, aspettare, riverificare, riaspettare. Se tutto va bene, fra diciotto mesi avremo il vaccino contro il virus – forse neanche in tempo per quelle vaccinazioni di massa dell’autunno inoltrato (il vaccino ormai porta l’inverno, come l’arrivo della rondine faceva primavera) che sono diventate consuetudine.
Le misure di prevenzione non appartengono alla scienza, appartengono alla politica. O meglio: alla disciplina della società. forse ormai le due cose si sovrappongono, nella tecnica, nell’ingegneria sociale. Nella medicalizzazione della società. Proprio come sarebbe stato possibile evitare certe disastrose esondazioni, certi smottamenti improvvisi: la scienza ci dice che occorre la forestazione, che occorre non desertificare, che occorre favorire la presenza dell’umano ma anche di non eccedere nell’antropizzazione disordinata – prima che accadono; quando accadono, la scienza si fa di lato. Intervengono gli ingegneri, i genieri. I militari.
Le misure che l’Oms consiglia – lavarsi le mani, eccetera – sono misure di buon senso che valgono sempre e ovunque. se non seguite, favoriscono l’ingresso del virus, ma se seguite non garantiscono proprio nulla, né che il decorso della malattia, se interviene, sia debole. D’altronde il dottor Li Wen Liang, l’oftalmico che per primo intuì l’esplodere del virus a Wuhan, è morto, e non aveva neanche trent’anni. La lettura dei decessi, che snocciola cifre sugli “anziani” e i “malati”, dovrebbe tranquillizzare i più, che sono la maggioranza dei forse-salvati – ma accade con il virus quello che accadrebbe con un qualunque cataclisma, con una qualunque catastrofe. Gli anziani non ce la fanno a scappare, e rimangono in trappola. I malati sono abbandonati da chi ce la fa a scappare, e sono già condannati. Sono già sommersi.
In tutto questo, la scienza non c’entra nulla e c’entra l’umano. E per capire l’umano occorre la letteratura e la storia. Perché, e questo non dovrebbe sorprenderci, in realtà sta accadendo quello che è sempre accaduto quando un morbo si diffonde, quello che ci hanno sempre raccontato la letteratura e la storia. Anzi, si diffonde rapida la “percezione” del morbo, ché questa è poco più che una cattiva influenza, ci viene detto. Ma ci è stato talmente spiegato e ripetuto a iosa che la percezione ha un ruolo nella rappresentazione della realtà e nell’incrementare la realtà, che ormai non stiamo troppo a sottilizzare. Gioca poi, l’atavica diffidenza verso il potere – se ci dicono di stare tranquilli, c’è qualcosa sotto. Come in un carnevale sfrenato, la malattia rompe ogni argine di rispetto e sottomissione.
È qui che interviene la disciplina della società, per salvare l’ordine delle cose. Il lazzaretto d’un tempo non era una misura clinica – o lo era in quanto misura disciplinare, basata sul principio antico quanto l’uomo, che l’isolamento del difforme è l’unica salvezza per la comunità. Un istinto animale, riprodottosi nella brutale semplificazione del sociale. Tutte le misure intraprese dai governi – senza distinzione di regime e bandiera – sono improntate allo stesso principio, modulato a seconda dell’intensità. Tutti i governi che si sono adoperati sono guidati da un principio di eccezionalità e emergenza: chiudere le frontiere verso l’esterno, isolare le zone del contagio. Bloccare ogni scambio e ogni mobilità – che sono poi i principi della vita. D’altronde, da cosa dovrebbero essere guidati? La stessa scienza dice: chiudete, chiudiamo, isoliamo. è l’unica prevenzione possibile. È dall’impotenza della scienza che viene la prepotenza della politica disciplinare. Noi stessi chiediamo di essere salvati, di essere messi al sicuro. E le procedure della politica disciplinare sono uguali ovunque, proprio perché ossificano le procedure dell’umano: il lebbroso va allontanato e non condannato all’erranza, ma rinchiuso in un ospedale. anzi, a casa. Intere società chiuse in casa. Visto che ormai il “modello” della concentrazione massiccia (la fabbrica, la caserma) è finito, usiamo la segregazione domestica. La segregazione diffusa, proprio come la fabbrica diffusa. La segregazione per ventiquattr’ore al giorno, proprio come il lavoro è diventato una quarantena perenne. Siamo perciò gettati nella malattia del virus – che è la forma assunta dalla mondanità, che regola cioè la nostra vita quotidiana, nel lavoro e nel dopo-lavoro – o siamo gettati nella disciplina societaria. Per provare a scampare dall’una, anche fallisse una volta, la risposta sarebbe una disciplina ancora più stretta e rigorosa, non abbiamo a disposizione che l’irreggimentazione.
Ma l’umano e la politica potrebbero non essere obbligati a questo. La società non dovrebbe avere paura di se stessa: se c’è è perché sappiamo di essere già malati, sappiamo di essere infetti da patologie sociali – il razzismo, la xenofobia, l’odio del diverso, la ricerca sempre di un capro espiatorio, di untori. Nella nuda forma della malattia si riproduce la nuda forma della disgregazione sociale. L’umano e la politica dovrebbero trovare la forza e il coraggio e l’intelligenza di organizzarsi altrimenti. L’umano non è solo cinico abbandono dei deboli, e la politica non è solo delega al potere disciplinare. È qui che si gioca la partita per salvarci – salvarci tutti, non solo i più giovani o i più veloci o i più attenti. Salvarci come società e comunità. O riusciamo a “politicizzare” il virus o siamo dannati. Dannati come società e comunità. Politicizzare il virus non significa le paranoie complottiste sulla sua voluta diffusione per giochi tra potenze o la fuga involontaria da laboratori segretissimi scavati nelle rocce – sono sciocchezze, che peraltro alimentano frustrazione e isolamento, rancore. Politicizzare il virus, significa partire dalla dimensione sociale della resistenza, dall’umanizzazione della risposta. Dal prendersi cura gli uni degli altri. Dalla virtuosità civica che è il fondamento di ogni repubblica dell’umano. Dall’opporsi alle cialtronerie e alle meschinità della politica e all’ordine della militarizzazione. Questo è: i cataclismi sono conflitti di potere. Il “loro” è organizzato, per il potere disciplinare siamo già tutti pazienti. “Loro” hanno già i piani per le epidemie. Noi no. (lanfranco caminiti)
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