In un quartiere della periferia di Messina, un’attivista che l’autore chiama “Crepax” organizza quasi da sola un sindacato di base per il diritto alla casa di alcuni degli abitanti più svantaggiati della città. È il 2017: l’ultimo anno del sindaco “ribelle” Renato Accorinti, la cui lista “Cambiamo Messina dal basso” era sostenuta da gran parte della sinistra locale. La struttura occupata che appoggiava il “sindaco del cambiamento” viene legalizzata dalla nuova giunta. È a quel punto che Crepax, tra le più attive nell’occupazione, rompe con il collettivo e con il sindacato di cui era parte, che considera troppo assistenzialista e troppo accondiscendente con il sindaco. Decisa a continuare la lotta, tenta una via disperata: costruire un nuovo sindacato autonomo, quasi in solitario, anche in contrasto con i suoi ex compagni, già minoritari. Il territorio su cui si orienta è uno dei quartieri più poveri di Messina, Zafferia, abitato da una popolazione marginale e sottoproletaria, apparentemente priva di coscienza politica.
Tra i pochi visionari che aiutano Crepax in questa impresa c’è l’autore del libro, Pietro Saitta. Il sociologo messinese, già autore di un rigoroso studio sulla ricostruzione dopo il terremoto del 1908, è un militante storico della sinistra extraparlamentare locale. Partecipando attivamente al nuovo sindacato, Saitta entra in contatto con una parte di città dove i militanti non arrivano. Prima redige i verbali delle assemblee quasi quotidiane con cui Crepax tenta di “coscientizzare” gli abitanti; poi collabora con la breve occupazione organizzata dal neonato sindacato a Zafferia. Nel frattempo scrive un diario di campo, e raccoglie materiali, dai volantini alle conversazioni whatsapp, riuscendo velocemente a trarne un libro. Prendere le case. Fantasmi del sindacalismo in una città ribelle (Ombre corte, 2018) quindi non è solo scritto dall’interno: è anche pubblicato prima che gli eventi narrati diventino cose del passato.
Ma soprattutto il libro si concentra proprio sugli aspetti più ambigui e controversi dei movimenti politici. Rispetto a tanti tentativi di ibridazione tra ricerca e attivismo in cui siamo tutti impegnati, senza quasi mai riuscire a superare il tono panflettario o autocelebrativo (del resto comprensibile, visti gli attacchi continui alla legittimità della politica extraparlamentare), Saitta non teme di svelare le debolezze delle persone e dei collettivi, la fragilità dei loro legami, la confusione delle loro idee. Per chi partecipa o ha partecipato ai movimenti di base, leggere nero su bianco tutto questo è straniante. Viene da dirsi: ma davvero si possono raccontare tutte queste cose? Non sarebbe meglio tenercele per noi? Ma più si legge, più si capisce: non solo si può, ma si deve.
Soffocare il dubbio
Il libro è incentrato su Crepax. Non è la prima etnografia di una persona sola, da cui ricostruire un intero contesto sociale: il precedente a cui Saitta fa riferimento è Tuhami di Victor Crapanzano (Meltemi, 1995). Come Tuhami, anche Crepax è un outsider: ossessionata dal suo progetto politico, paranoica verso i suoi ex compagni, tragicamente divisa tra il bisogno di creare autonomia tra i sottoproletari e l’impulso a dirigere ogni aspetto del processo. Il suo sindacato “non è una vera organizzazione”, come confessa più volte, pur continuando a presentarlo come tale nei comunicati. Il suo ruolo da leader la porta a sgridare le persone “per le quali” lotta, da cui si aspetta la stessa coscienza politica che si propone di costruire. Il suo impegno incessante, ossessivo, la obbliga anche a (o le permette di?) trascurare il figlio adolescente, attirandosi le critiche velenose di una ex compagna, assistente sociale, che fa leva sul senso di colpa materno.
Dal canto loro, gli/le abitanti del quartiere che aderiscono al sindacato vivono situazioni di disagio estremo, sono ricattate dai servizi sociali e trattate con superiorità anche dalle istituzioni “del cambiamento”; ma reagiscono con servilismo, razzismo, maschilismo, egoismo e sopraffazione – tutti quegli aspetti che abitualmente tengono alla larga i “normali” militanti della sinistra di base. C’è chi sta ai domiciliari, chi finge infortuni o un divorzio per suscitare compassione nei servizi, chi nasconde al sindacato una casa di proprietà, e anche chi picchia la moglie o fa prostituire i figli. Questi “indifendibili” non perdono occasione di raccontare, ritualmente, le proprie tragedie individuali, modificandole ad arte, senza mai incanalarle in un orizzonte politico collettivo. Sono come donne violentate, dice Crepax, che però non riescono a odiare chi ha fatto loro violenza. E il lavoro più duro del militante è proprio nel soffocare i dubbi sulla “difendibilità” di queste persone. Sai quante volte li manderei a fare in culo? – dice Crepax –. Ma non lo faccio, perché metto il principio politico prima di tutto (…). Rimanere è uno sforzo. Sarebbe facile andarsene. L’ho sempre fatto, dopo tutto. (…) Chissà dove ci porterà. Forse a nulla (p. 87).
A sprazzi i loro obiettivi convergono con quelli dei militanti, costretti a isolare porzioni della biografia dei rappresentati, ponendo così da parte la consapevolezza, oppure il sospetto, che una parte di questi miri semplicemente a ottenere “un po’ di più”, senza avere cioè un reale interesse a capovolgere i rapporti di classe (p. 33). E riemerge il sostrato individualista: Fascista ero e fascista ritorno! Sindacato autonomo popolare del cazzo, scriverà un uomo su whatsapp dopo il fallimento dell’occupazione. Durante uno sfratto a Barcellona Pozzo di Gotto, a un vigile che ripeteva gli stereotipi sul quartiere “brutto” e mafioso, una donna ribatte: Hanno creato il ghetto loro e ora parlano di quanto sia brutto il quartiere (p. 94). Ma un altro subito aggiunge: E agli extracomunitari hanno dato le case del centro! Immagino Saitta che passa da un capannello di abitanti all’altro, impegnato a registrare mentalmente le conversazioni, ma anche ad arginare le derive razziste nei dibattiti. Non è facile tenere insieme l’esigenza di modificare la realtà quando si è sul campo, e l’impegno a non tradirla al momento di descriverla.
Il rimosso ritorna
In questo panorama, dove il simulacro di lotta comune nasconde sempre una parte oscura, fatta di liti, gelosie e scatti di rabbia, a un certo punto irrompono i fantasmi. Già la frazione di Zafferia da cui provengono gli abitanti, detta proprio “le case fantasma”, sorge su un cimitero: Abitiamo sulle anime, spiega una donna (p. 108), evocando un’esclusione completa, esistenziale, dalla città dei vivi. Poi, nell’occupazione in cui faticosamente Crepax convoglia le energie del gruppo di abitanti, appaiono lo spettro di un ragazzo morto fulminato e quello di una bambina mongoloide (p.165). Queste apparizioni svolgono un ruolo politico: emergono dallo stato comune di tensione che allo stesso tempo tiene insieme e divide il gruppo. Ognuno però vi proietta i propri bisogni individuali: Crepax le usa per sancire una legittimità “sovrannaturale” dell’occupazione; gli altri per opporre resistenza alla leader, ribadendo la loro subalternità e irriducibilità alle gerarchie, anche a quelle dell’occupazione. Saranno proprio gli spiriti a voler uccidere Crepax, che fuggirà dalla villa occupata, inseguita dai suoi fantasmi personali.
Saitta inserisce un elemento a cui sempre più antropologi e antropologhe rivolgono attenzione (e che in Italia, dopo mezzo secolo di ricerche sul mondo subalterno, dovremmo avere molto più presente). Gli spiriti condensano l’invisibile insito in ogni rapporto umano; non sono sopravvivenze di un mondo pre-moderno, ma testimoni permanenti di quanto ogni società rimuove, nasconde, ma non può eliminare. Quelli di Messina hanno sicuramente radici nel mondo magico contadino, però infestano la città, dove è proprio l’urbanizzazione a far emergere la parte oscura. Nel sottoproletariato urbano, stregonerie e sortilegi prendono la forma di false notizie, crimini dimenticati, sospetti. È un mondo in cui morte, invidia, parole dette alle spalle, opportunismo e complotti costituiscono il principale orizzonte di senso attribuito alla vita (p. 121). Inoltre, gli spiriti hanno sempre un legame con il potere, con lo stato, con la polizia: Minchia, mi sento osservato! è la frase memorabile di uno degli occupanti – Non capisciu se sunnu i sbirri oppure i spirti (p. 164).
Etnografia di un delirio
Il libro è meno convincente quando cerca di decifrare gli aspetti psicologici delle azioni individuali: come dice Manuel Delgado, l’etnografia non studia le persone, ma i loro rapporti. Crepax ha sicuramente una psicologia complessa, come molti militanti, ed è proprio la lucida e insieme patologica determinazione con cui si ostina ad anteporre la propria volontà al principio di realtà che la rende un fenomeno (p. 70). Ma il suo “delirio”, come lo chiama Saitta, è espressione di un desiderio collettivo di trasformazione, una causa collettiva a cui sacrifica la sua individualità, in modo quasi ascetico. È una persona sana o patologica, a seconda di quanto consideriamo patologica o sana la società che la opprime; incarna in pieno il conflitto tra razionalità politica ed emotività individuale che coinvolge chiunque senta l’urgenza di cambiare la società. Saitta non riesce a seguirla fino in fondo, e il libro racconta anche della loro rottura definitiva.
Ma le riflessioni di Saitta sulla posizione limite su cui Crepax ha avuto il coraggio di posizionarsi, fanno luce su alcuni aspetti rimossi del nostro presente. Il primo è politico: questa è la prima etnografia di una “città ribelle” vista dai suoi margini, dal punto di vista di chi è escluso anche quando governano coloro che si dicono dalla parte degli esclusi. Emergono allora le conseguenze indesiderate di un orizzonte politico all’apparenza così promettente: la legalizzazione dei centri sociali, l’istituzionalizzazione dei movimenti, l’autoreferenzialità dei “beni comuni”. Il fallimento di Accorinti dipende anche dalla sua distanza con il sottoproletariato urbano, alieno al “sindaco del cambiamento” forse più che a quelli precedenti. Il secondo aspetto, appunto, è quello sociale: l’assenza quasi completa di studi sul sottoproletariato italiano, dopo le Autobiografie della leggera di Montaldi (1961), ha contribuito a rimuovere un intero settore di società dal discorso politico, condannandolo al folklorismo, all’essenzialismo, all’etnicizzazione. E ai fantasmi che ne emergono. Controrivoluzionarie per la vulgata marxista, immorali per la borghesia, le storie dei sottoproletari ci mettono a disagio: pensarli protagonisti di un’azione politica sembra un delirio.
Tirar fuori queste contraddizioni, il non detto, gli scheletri dei movimenti per il diritto alla casa e delle “città ribelli”, proprio ora, può sembrare un autogol, che scredita o demoralizza (anche Crepax viene manipolata dalla destra). Ma questo libro ci fa capire che raccontare la realtà e lottare per cambiarla non sono due cose separate; e che fare politica senza cercare di capire è altrettanto assurdo che cercare di capire senza fare politica. Solo così possiamo immaginare progetti politici efficaci per quelle parti di città dove non va mai nessuno. Altrimenti, continueremo a lasciarle in mano ai fantasmi. (stefano portelli)
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