Ho iniziato ad avvicinarmi alle droghe in adolescenza, un periodo in cui gli assistenti sociali mi “sbattevano” da un posto all’altro. Mia madre è morta di asma dopo nove mesi dalla mia nascita e mio padre, che di lavoro faceva il facchino, mi ha cresciuta da solo, con l’aiuto dei nonni. Poi i suoi genitori dovettero cambiare casa, e oltre alla difficoltà ad accudirmi da solo gli lasciarono anche qualche piccolo debito sulle spalle. I nonni materni si andavano facendo sempre più anziani e così a tredici anni mi ritrovai in una casa famiglia, con la promessa che sarei uscita da lì al raggiungimento della terza media. Dall’istituto potevo uscire, ma a orari controllati e mai di sera. Iniziai a bere, nascondevo le lattine di birra e le bottiglie di vino in un cespuglio, prima del rientro in struttura. Poco dopo iniziai a sniffare Speed, un anestetico per cavalli che viene utilizzato per provocargli l’anestesia durante gli interventi chirurgici.
Senza sapere bene come, poco dopo ebbi il primo approccio con l’eroina. Un giorno mi ritrovai in un bagno pubblico con altre cinque persone, quattro che la fumavano e una che se la iniettava. A spingermi a provare fu la curiosità. Iniziai fumando ogni tanto e andai avanti per qualche mese. Non ero dipendente dalla sostanza in quel periodo, però. Me ne accorgevo vedendo la reazione degli altri, le crisi che avevano, quando andavano in astinenza. A farmi cadere definitivamente nell’abisso fu il carcere. Ero una ragazzina, avevo diciotto anni, mi arrestarono perché mi trovarono con qualche pallina di eroina addosso. Mi piacevano i soldi facili, facevo trenta euro con un passaggio di mano. In cella le altre detenute mi raccontarono le loro esperienze: quelle tre settimane di carcerazione furono un vero e proprio corso accelerato di linguaggi e metodi usati dagli spacciatori e dalle persone affette da tossicodipendenza. Solo qualche anno dopo avrei letto Jung, che descriveva il carcere come una scuola del crimine.
Quando uscii non vedevo davanti a me altra strada possibile che lo spaccio. Per raccattare più soldi mi iscrissi al Sert. Spesso quando vai al Sert non ti fanno nemmeno il controllo delle urine, ti “autodenunci” come tossico con poche parole e così quel luogo diventa il primo fornitore di materia prima da rivendere. Mi prescrissero con l’affido novanta millilitri di metadone, droga sintetica, di Stato. Mi diedero anche degli psicofarmaci, da assumere in ambulatorio una volta a settimana, che mi conciavano in modo pietoso.
Tra le mie frequentazioni c’erano persone che facevano uso di cocaina. Vedevo gli effetti di euforia e di grande energia che gli dava la sostanza e così, senza riferimenti e prospettive, ho creduto che fosse adatta a risollevarmi. Iniziai con l’iniezione, andai avanti per quasi sette mesi fino a quando andai in overdose. Scampato il pericolo iniziai a sentirmi strana, mi sembrava quasi di star perdendo l’uso della ragione, e decisi che per bilanciare quelle “controindicazioni” sarebbe stata necessaria l’eroina. In due anni di libertà, prima di essere nuovamente arrestata, ero arrivata all’assuefazione totale. Cocaina ed eroina non mi davano più gli effetti desiderati. Avrei voluto che qualcuno mi aiutasse, ma quando ti trovi in quelle condizioni le persone preferiscono allontanarti che provare ad aiutarti.
In carcere le cose non sono migliorate. Essendo già registrata al Sert esterno, mi hanno dato subito la terapia. In più mi davano il metadone (lo assumevo in infermeria) e vicino una buona dose di psicofarmaci. Ero stordita, sembravo uno di quegli orsi che va in letargo durante il periodo invernale, ma per me non sarebbe arrivata nessuna primavera. Ero in uno stato catatonico, profonda sonnolenza, stanchezza, debolezza muscolare. Mi ci è voluto un anno per raggiungere la consapevolezza che metadone e psicofarmaci non mi avrebbero portato a nulla se non all’autodistruzione. Ci è voluta tanta determinazione per iniziare lo scalaggio del metadone fino alla sua eliminazione. Lo stesso ho fatto in seguito, con gli psicofarmaci. Una impresa che richiede una forza straordinaria, e ancora di più nel contesto carcerario, dove il personale infermieristico, psicologico, psichiatrico e penitenziario, non ha alcun interesse a farti diminuire la terapia trattamentale e aiutarti a venirne fuori. L’unica cosa importante per loro è mantenere la sicurezza all’interno del carcere, la stabilità di un equilibrio da salvaguardare a ogni costo, evitando le possibili conseguenze negative. Se fuori spesso hai il problema di trovare la pillola, il vero problema in galera è toglierla.
Se chi lavora all’interno del carcere ha queste intenzione, è chiaro che i detenuti e le detenute tendano ad abusare dei farmaci, per alleviare lo stress e l’ansia legati alla detenzione o per il loro effetto sedativo. Non esistono opportunità di lavoro, programmi di sostegno e trattamenti adeguati per ridurre l’abuso. Esiste la solidarietà tra detenute, c’è chi prova a incoraggiarti condividendo esperienze, storie di recupero o di lotta contro la dipendenza, chi cerca di motivarti per migliorare la tua situazione. Ma nel complesso il carcere non ha fatto nulla per aiutarmi a uscire da questo tunnel: se fosse stato per loro sarei stata sedata nel letto della mia cella fino a fine pena, come purtroppo accade a tante persone che escono da galera molto provate nel fisico, con una dipendenza che magari prima non avevano, disconnesse dal mondo esterno.
Il 2022 è stato l’anno peggiore per quanto riguarda i suicidi in carcere. Sono stati ottantaquattro. Ma anche i decessi sono tantissimi, ben duecentoquattordici. Nel 2023 già cinquantaquattro persone si sono tolte la vita, su un totale di centoventiquattro morti. L’incolumità di queste persone non è tutelata dallo Stato, che anzi trasforma in tanti modi differenti la detenzione in una tortura, e tal volta in una pena di morte mascherata. (luna casarotti)
Storia bellissima di caduta e riscatto
Brava luna! Sei stata forte e coraggiosa 💕