L’11 novembre i cittadini romani saranno chiamati a esprimersi nel referendum comunale consultivo sul destino di Atac, l’azienda per la mobilità della capitale. Il referendum è stato promosso dai Radicali italiani per mettere a gara il servizio dei trasporti cittadino. Le principali forze politiche hanno preso nel corso delle ultime ore una posizione favorevole al processo di privatizzazione. Riproponiamo a seguire un articolo sulla questione scritto da Paolo Berdini e pubblicato da Striscia Rossa.
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I promotori del referendum chiedono di aprire una fase di privatizzazione e concorrenza nel servizio di trasporto pubblico. Due quesiti generati dalla cultura dominante nell’ultimo trentennio in cui le amministrazioni pubbliche sono state disarticolate in favore dei privati. Due quesiti che sono stati spazzati via dal crollo del ponte autostradale del Polcevera. La vicenda di Genova mette in luce che è fallita la politica delle privatizzazioni attuata a partire dall’ultimo scorcio del secolo scorso. O meglio, sono arrivati al pettine i nodi di una privatizzazione sistematica operata senza lasciare – come succede in tutte le altre economie di mercato – i poteri di controllo e di sanzione alle amministrazioni pubbliche.
In buona sostanza, l’ingresso dei privati in alcuni servizi fondamentali del sistema paese è avvenuto senza che l’amministrazione pubblica mantenesse il ruolo di coordinamento e di regia delle operazioni di manutenzione. La struttura dello Stato è stata smantellata e tutti i vantaggi di questa operazione sono stati lasciati alle società concessionari, come Autostrade per l’Italia. Si pone oggi urgentemente la fase di una ricostruzione del ruolo e delle prerogative delle pubbliche amministrazioni che tutelano funzioni fondamentali come quella della mobilità autostradale.
Quando Mobilitiamo Roma raccolse le firme per privatizzare il trasporto pubblico di Roma, eravamo ancora nella fase ideologica della vicenda: il pubblico è inefficiente e corrotto (spesso vero, purtroppo), meglio affidare tutto ai privati. Il referendum dell’11 novembre partiva su un presupposto errato che è tragicamente crollato con il ponte sul Polcevera. Oggi tutti coloro che hanno a cuore le sorti del paese devono unire gli sforzi per ricostruire l’architettura dello Stato smantellata nei decenni del liberismo selvaggio.
1. Atac, una azienda sull’orlo del fallimento
È indispensabile ragionare preliminarmente sulla gravità della crisi dell’Atac, per troppi anni senza una strategia credibile per rilanciare il trasporto pubblico. L’azienda è stata abbandonata a se stessa da una politica miope ed è diventata terreno di conquista clientelare da parte della malapolitica. L’Atac è un’azienda inefficiente e indebitata fino a sfiorare il fallimento.
Oggi il debito è insostenibile e soltanto l’espediente dell’apertura della fase del concordato preventivo ha evitato temporaneamente che l’azienda andasse verso il dissesto finanziario. Insieme al debito, c’è un altro fondamentale effetto del fallimento dell’Atac, quello di un servizio di trasporto inefficiente e indegno della capitale italiana, caratterizzato della mancanza di investimenti che hanno comportato un invecchiamento insostenibile del parco vetture e uno squilibrio insostenibile tra la rete su ferro e quella su gomma che trasporta il 56% dei viaggiatori totali. Il fallimento di Atac si inquadra, al contrario, nell’assenza del governo pubblico dell’azienda, nelle nomine di dirigenti incapaci e incompetenti indicati solo sulla base della fedeltà di partito. Atac è stata insomma portata al fallimento economico e all’inefficienza dall’assenza del governo pubblico, allo stesso modo con cui negli ultimi trenta anni è stata smantellata l’architettura delle aziende pubbliche che erano state il vanto dell’Italia, contribuendo alla costruzione della fase di crescita economica e sociale del paese nei primi decenni del dopoguerra.
2. Tornare alla cultura dell’intervento pubblico della giunta Nathan
La questione della ricostruzione dello Stato e del servizio di trasporto pubblico romano richiama in particolare una storia fondamentale che è alla base della creazione del servizio pubblico e dell’Atac. Nel primo quindicennio del Novecento, le critiche del sindaco Nathan e dell’assessore Montemartini si concentrarono proprio sull’indifferenza da parte degli allora monopolisti privati del trasporto romano a soddisfare i bisogni della città e delle periferie.
In una logica di puro “mercato”, infatti, le società private si concentravano sulle linee di percorrenza dove c’era maggiore domanda trascurando le periferie. Il referendum del 20 settembre 1909 sulla pubblicizzazione del servizio di trasporto si basava proprio su questa motivazione: a distanza di centonove anni, con una periferia gigantesca (quella di Nathan era infinitesimale in confronto) il referendum sulla “privatizzazione” di Atac dimostra il baratro culturale in cui ci ha portato la cultura dominante che sta ormai distruggendo il welfare urbano e, con esso, il trasporto pubblico. Non si comprende infatti per quale motivo oggi i “privati” garantirebbero un servizio universale per i cittadini delle periferie romane: se non riesce a farlo un’azienda pubblica, come potrebbe essere possibile per aziende che perseguono esclusivi fini di lucro?
Una domanda di fondo attraversa dunque lo svolgimento del referendum. Oggi, proprio di fronte al rischio della cancellazione del welfare urbano, le autorità pubbliche devono compiere il salto di qualità che permetta alle città italiane di guidare una fase di profonda riqualificazione del ruolo e delle forme dell’intervento pubblico. Soltanto con il NO al quesito referendario si potranno creare le condizioni per il rilancio e il risanamento delle aziende pubbliche. Privatizzare significa soltanto penalizzare le periferie romane e a gente che vi abita.
3. Ciò che i promotori del referendum nascondono: la privatizzazione già esiste. Il caso TPL
Il quesito e le argomentazioni a sostegno del Sì al referendum omettono infine di dire che la “concorrenza” nel servizio di trasporto esiste già da diciotto anni. Nel 2000 nell’occasione del Giubileo per risolvere le esigenze di spostamento dei numerosi pellegrini, furono create le “linee J” da cui nacque l’esperienza della TPL. Il Contratto di Servizio con il comune di Roma riguarda l’esercizio delle Linee Periferiche del Comune di Roma, per circa ventotto milioni di km l’anno. Si tratta di circa il 20% del servizio di trasporto su bus svolto a Roma. Il restante 80% circa è svolto dall’Atac.
È singolare che i fautori della concorrenza nascondano questa verità e – soprattutto – omettano di svolgere un bilancio della ventennale esperienza. Chi vuole mettere a bando concorrenziale l’intera rete di trasporto locale dovrebbe invece rendere puntigliosamente conto dei risultati della “privatizzazione” operata nel 2000, gli anni d’oro dell’ubriacatura privatizzatrice in Italia, dalle Autostrade a Telecom. Il bilancio dell’esperienza Tpl ha due aspetti. Il primo riguarda un servizio scadente nei confronti della periferia romana, l’area che per condizioni sociali avrebbe maggior bisogno di essere servita. Le corse sono scarse e i mezzi utilizzati non hanno le caratteristiche qualitative che dovrebbe avere la capitale d’Italia. La concorrenza provoca dunque uno scadimento del servizio di trasporto. C’è poi il secondo aspetto, se possibile ancora più grave del primo. TPL ha sottoscritto con il comune di Roma un contratto di servizio che prevede – al pari di quello di Atac – il rimborso sulla base del parametro dei chilometri percorsi. Altre città del mondo e dell’Italia hanno impostato i loro capitolati prestazionali sulla base dell’efficienza e della qualità del servizio. A Roma si paga ancora “a peso”.
Un peso che porta oggettivamente al fallimento. Roma è infatti una città che ha una gigantesca espansione e frammentazione urbanistica. Decenni di dominio della famelica proprietà fondiaria e il fenomeno dell’abusivismo hanno generato una città troppo grande, con densità troppo bassa e – soprattutto – con una frammentazione urbanistica molto accentuata. Sulla base di questa caratteristica, i cittadini romani pagano le società di trasporto pubblico (Atac e Tpl) a chilometro percorso. Che cosa significhi questo per le periferie lontane è facilmente comprensibile: i bus Tpl percorrono un numero di chilometri enorme proprio perché la struttura delle periferie è frammentata e lontana. La società incassa un buon numero di milioni e non eroga un servizio efficace verso i cittadini romani.
La vicenda TPL dimostra chiaramente che la ricetta dello smembramento e della “concorrenza” è stata un tragico inganno: continuare sulla stessa strada è un atto scellerato e per questo motivo non c’è traccia della vicenda nei documenti dei promotori del referendum. E qui veniamo alla prima proposta di recupero di efficienza del servizio di trasporto pubblico. Si deve passare dal parametro chilometri percorsi a qualcosa di più evoluto che sappia misurare la soddisfazione dei cittadini. Ma di questa complessità non c’è la minima traccia nelle argomentazioni dei Radicali. (continua a leggere…)
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