da eldiario.es
Il punto non è la Catalogna ma la Spagna. Ciò che ha provocato questo conflitto politico tra la società catalana e lo stato spagnolo, iniziato con la raccolta di firme contro i catalani e la denuncia dello Statuto catalano al Tribunale Costituzionale, è una crisi di stato che si poteva prevedere da mesi; ma, soprattutto, è la crisi nazionale spagnola.
Ciò che reclama l’ottanta per cento della società catalana, che la stampa del bunker obbedendo agli ordini chiama “la sfida indipendentista”, ha messo a nudo il vuoto nazionale spagnolo e il vero carattere dello Stato nato dalla Riforma forgiata durante la Transizione. Franco, protetto dagli Stati Uniti, è morto nel suo letto perché aveva amputato e distrutto il corpo sociale, e la società che pian piano rinacque durante gli anni Cinquanta e Sessanta non ebbe mai le forze per mandarlo via e neanche per imporre una rottura politica dopo la sua morte.
La storia è andata com’è andata, l’antifranchismo era debolissimo, la società era paralizzata dal terrore dell’esercito, da quei generali che scrissero di loro pugno l’articolo 2 della Costituzione vigente, e furono le Cortes franchiste, le stesse che prima avevano approvato la Legge sulla Successione [che ristabilì la monarchia nel 1947], ad approvare la Legge di Riforma Politica, cioè la Transizione. La spiegazione fondamentale di quel che sta succedendo ora è che il sistema politico attuale si regge sulla riforma, e non sulla rottura. Ma la storia è andata com’è andata, “lascio tutto ben sistemato” [“todo queda atado y bien atado”, frase di Franco del 1969 per tranquillizzare l’oligarchia della continuità della dittatura dopo la sua morte], un’altra storia era impossibile.
Ed è nella continuità senza rotture con il franchismo, che risiede il fallimento di questa Spagna, perché parliamo di un fallimento. Quella menzogna iniziale, l’occultamento del fatto che non avevamo rotto con il franchismo e che continuavamo ad adattarci a esso, bisognava coprirla con nuove e successive menzogne con cui ci hanno martellato durante questi decenni, e che abbiamo finito per credere vere. “Siamo un esempio per il mondo”, “siamo un successo”, “l’Europa ci invidia”, “una democrazia esemplare”. Alla fine anche le menzogne finiscono, e appare la realtà.
Il patriottismo ridotto alle corride dei tori, la “festa nazionale” e il calcio, è il combustibile delle frasi che gridano gli agenti della Guardia Civil e i loro parenti quando partono per il fronte catalano: “A por ellos! Andiamo a prenderli! Sono Spagnolo! Olé!”. Ma dall’altro lato di quel fronte ci sono solo civili disarmati, le cui uniche armi sono le schede stampate in casa e le urne nascoste per non farle rubare. La peggior immagine della Spagna nel mondo, di nuovo come nel passato, come nel 1975.
La realtà dello stato spagnolo è che le sue strutture appartengono a una casta di alti funzionari che ereditano il posto da generazioni, e a un’oligarchia famelica che vive dell’appropriazione delle risorse generate dalla popolazione. Ma la realtà del territorio e della popolazione spagnola è molto diversa da tutti i punti di vista, e la pretesa omogeneità e le politiche di omogeneizzazione nascondono una realtà di identità e interessi contrastanti. Quello che muove il nazionalismo spagnolo, a differenza dei nazionalismi che si concentrano contro un nemico esterno, come nel caso del Brexit, è il patriottismo contro le differenze nazionali interne. È questo quello che esprimono i quattro milioni di sostenitori di Mariano Rajoy [quando hanno votato contro la Catalogna], i suoi milioni di votanti, e buona parte dei votanti di Susana Díaz [del Partito Socialista]. Le assurdità che l’ex ministra Trujillo dirige ai catalani dall’Estremadura, rivelano una xenofobia vicina al delirio nei confronti di una parte della popolazione spagnola.
La Catalogna è occupata dalla polizia, e ancora ci sbarcheranno migliaia di altri poliziotti armati per completare l’occupazione. Solo chi non ci vive può sottovalutare questa situazione, oppure chi non ha conosciuto il franchismo, oppure chi è semplicemente franchista. E come sempre sono i poveri a essere mandati lì dall’oligarchia parassitaria dello stato centralista, i figli delle famiglie di quei territori che non sono riusciti a creare processi di modernizzazione e industrializzazione endogeni, e hanno bisogno delle ricchezze che si producono in paesi come la Catalogna. La cosa terribile è che i signorotti franchisti padroni dello stato mandano chi non ha avuto altre opportunità, a reprimere chi è libero. Come sempre.
In Catalogna c’è di tutto: i catalani di oggi vengono da tutte le origini e hanno tutti i cognomi della Spagna e del mondo, non si richiamano alla razza, ma alla loro libertà come cittadini; però non hanno paura e sono liberi. In gran parte della Spagna vedo invece la paura degli schiavi, degli ignoranti, di quelli che si sentono indifesi di fronte alle sfide della libertà e della democrazia. Questa gente che grida “Andiamoli a prendere!” [“A por ellos”, il grido di incoraggiamento alla Guardia Civil quando partiva per la Catalogna] ai giovani armati che mandano a reprimere i catalani come delle vere forze di occupazione, non fanno paura: fanno pena. Questi fascisti che salutano la Guardia Civil con il braccio teso non sono oppressori, sono persone ignoranti e senza opportunità, che servono ai veri vampiri dello stato.
L’unico progetto possibile per la Spagna sarebbe stato riconoscere la sua diversità nazionale, fondarsi su una storia completamente diversa dal racconto dei visigoti, di Covadonga, di Isabel la Católica, dei “cinquecento anni” [di cattolicesimo], quello di una Spagna veramente federale. È stato impossibile, e adesso non è più possibile senza una rottura. Ma questa rottura è anch’essa impossibile, perché se nel 1975 non c’erano le forze, ora ce ne sono ancora di meno.
E la Catalogna se ne andrà, adesso o tra un anno, però questa Spagna è insopportabile per chiunque ami la libertà, e sicuramente per questa società catalana che si è unita più che mai di fronte a questo attacco dall’esterno. Un attacco unanime, a cui non sono mancati migliaia di intellettuali e artisti che hanno espresso loro non freddezza, ma ostilità. Gli anni di Felipe González hanno fatto strage tra gli intellettuali spagnoli, hanno azzerato la libertà di pensiero critico e ci hanno resi comodi, abbiamo paura di perdere le poltrone, il pubblico, le tribune, gli spazi sulla stampa, che non ci pubblichino più sul País… abbiamo paura che ci facciano sparire, perché anche nel mondo culturale, “chi si muove non viene bene in foto”.
Cosa penserà di tutto questo quel magistrato che si fumò un sigaro con due amici nella plaza de toros di Siviglia, la notte prima di affondare lo Statuto catalano? Sicuramente darà la colpa ai politici, ai catalani… Qui nessuno si prende una responsabilità, e tutto è gratuito. Cosa ne penseranno quegli artisti a cui cinque anni fa si chiese un gesto pubblico di simpatia verso i catalani, e che dissero che non c’era niente da fare? Cosa ne penseranno quelli che hanno firmato i manifesti chiedendo la mano dura, ora che vedono il loro paese occupato da un’invasione di poliziotti? Nessuno che abbia il coraggio di cambiare posizione, solo Javier Mariscal [il disegnatore della mascotte dei Giochi Olimpici del 1992]?
Da questa parte dell’Ebro, non ci sono stati quasi gesti di dialogo o comprensione. Se ne andranno. E come diceva Azorín [scrittore spagnolo della generazione del 1898], “ci meritiamo di perdere la Catalogna. Questa schifosa stampa di Madrid sta facendo lo stesso lavoro che si era fatto con Cuba. Non lo capiscono. È la mentalità barbara dei castigliani, il loro cervello da coglioni (con i testicoli invece che il cervello nel midollo)”. Ma la Catalogna è già persa, sia per chi la voleva sottomettere, che per noi che la volevamo libera.
E ci rimarrà lo sconcerto di chi non voleva e ora ha paura. Paura di perdere i bonifici, di rimanere nelle mani di quelli che già erano i nostri padroni. “Sarà peggio per tutti”, sento dire. Sì, senza Catalogna, che Spagna sarà? Ma con i catalani rinchiusi in una prigione di stato, che Spagna sarebbe? Iniziamo a immaginare una Spagna senza Catalogna, visto che presto ci toccherà soffrirla. (suso de toro, scrittore galiziano, premio nazionale di narrativa nel 2003 / traduzione di stefano portelli)
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