Da tre anni frequento la famiglia di Sed, Jas e del figlio Rid – i loro nomi sono inventati per convenienza e protezione. Nel tempo ho raccolto note e riflessioni sulla mia esperienza. Ora ne scrivo, ma preferisco rendere irriconoscibile la mia identità e fornire vaghi riferimenti allo spazio e al tempo.
Sed è arrivato in Italia quasi venticinque anni fa, dopo undici anni lo ha raggiunto la moglie per ricongiungimento familiare. Jas era incinta al sesto mese quando è arrivata a Torino. È stato un parto difficile: in Bangladesh le avevano detto che sarebbe andata incontro a un aborto, ma all’ospedale è nato Rid. Era molto confusa al suo arrivo, e preoccupata per il parto imminente. Il marito viveva in una casa con altri tre compaesani, lavoravano tutti di notte, magazzinieri per una ditta della logistica. Jas, sola, ha dovuto costruire il suo orientamento: l’ospedale, i tram, le visite e nessuno sapeva niente. Gli uomini che dormivano in casa sua, compreso il marito, sembrava vivessero in un tempo e in uno spazio paralleli, di notte lavoravano, al mattino dormivano; poi si svegliavano e andavano al parco, non conoscevano l’italiano, non avevano tempo per spiegarle o non sapevano cosa dirle.
Rid è nato e Jas ha pianto per mesi, così mi ha raccontato quando l’ho conosciuta. Le mancava la madre più di ogni altra persona lasciata al paese, ora che spremeva la sua solitudine in una camera buia nel quartiere di Barriera di Milano. Viveva stordita: gli italiani, la città europea, Barriera di Milano e i bangladesi, ancora troppo pochi in quartiere, e un figlio da accompagnare alla vita nel momento critico in cui una nuova vita prendeva forma anche per lei.
Sono entrato per la prima volta a casa loro quando Rid aveva appena compiuto dieci anni e accumulato una lunga serie di atti rabbiosi e violenti, tanto a casa quanto a scuola, costatigli diverse diagnosi psichiatriche. Io ero il suo affidatario diurno subentrato a un intervento di educativa domiciliare che mi aveva preceduto per due anni: il progetto era appena scaduto. Disturbo oppositivo provocatorio, disturbo del deficit di attenzione e iperattività (più noto come ADHD), ritardo lieve: queste le diagnosi di Rid, più che comuni per i giovani figli di persone migranti. Il mio era un lavoro volontario, ma mi era corrisposto un rimborso spese di cui una parte da intascare, una parte da destinare alle spese per la famiglia. Tutto è avvolto in una profonda confusione a cui decido di aderire – la confusione, comprendo da quel giorno in poi, abita il dialogo tra il personale dei servizi sociosanitari: assistenti sociali, educatori, neuropsichiatri, psicoterapeuti e famiglia. Mi inserisco stordito come agente e spettatore.
Rid è irrequieto, e non lo nasconde, la sua smania è vivida e i suoi accessi di ira mi pietrificano in uno stato di fredda impotenza. Straparla, si agita, ha delle tendenze ossessive e repentini cambi di umore, si incazza e urla, a volte lancia oggetti o spintona. Per il personale dei servizi sociosanitari “è nato così”, ma io credo di no e cerco di entrare dentro l’anatomia della sua irrequietezza, partendo da due grandi emozioni che accendono i suoi occhi luminosi: la rabbia e la vergogna.
Iniziamo a conoscerci nel tentativo di sgrovigliarci. La famiglia è nel pieno dei preparativi per il viaggio estivo in Bangladesh, Rid è disperato e mi espone alla sconvolgente confusione identitaria legata alla sua provenienza. Prova odio per il paese dei genitori che continua a chiamare “il mio paese” pur sentendosene distante, pur vivendolo con disagio e paura; e continua a chiedersi – come se non ne fosse sicuro – se lui sia davvero italiano. «Non puoi capire che schifo è lì! Le strade sono tutte rotte, c’è il fango! Ci sono le case di terra dura e di legno, come una capanna!». Il tono della voce di Rid è spesso molto alto; a volte, senza accorgersene, raggiunge un tono non lontano da un urlo continuo: «Il mio paese fa schifo, non è igienico! Io voglio stare qui, li è tutto tarocco! Perché non se ne vanno e mi lasciano solo?».
L’odio per il Bangladesh rifrange una rabbia più strisciante e dolente, apparentemente cieca e senza possibilità di risoluzione. È incazzato con i genitori, con quel che i genitori rappresentano socialmente e culturalmente: odia il cibo che cucina la madre – grandi piatti di biriani o di ilish masher –, si dispera per ogni lezione di scuola coranica, frequenta malvolentieri i luoghi bangladesi, i discorsi bangladesi – il lavoro, il matrimonio, la famiglia –, i parenti bangladesi, le norme morali bangladesi. Queste norme sono rinchiuse in quel che imparo conoscere con il termine shashon, la regola morale: una filosofia pedagogica rigida che esige l’adesione a una serie di precetti morali, a cominciare dal rispetto per le figure genitoriali. Questa è la regola che orienta i genitori nella strada verso una buona educazione.
Si apre alla mia vista un drammatico cortocircuito, l’ombra delle “generazioni alla seconda”, il nome con cui Abdelmalek Sayad, sociologo franco-algerino, definiva i figli di persone migranti. È il teatro del conflitto che agita molti figli della diaspora, cresciuti in una cultura di mezzo, non più quella dei genitori, mai definitivamente quella delle nostre città: una “doppia assenza” lacerante – come la definisce ancora Sayad – che genera una rabbia incendiata dalla sensazione soffocante di essere sempre a un passo di distanza da una cultura di riferimento. Alla rabbia si accompagna la vergogna dei propri genitori, delle origini dei propri genitori, dei loro atteggiamenti troppo accondiscendenti o spaventati, oltremodo preoccupati di non sbagliare, che non di rado tradiscono un senso di inferiorità indotto nei confronti dell’italianità e della bianchezza. Me lo rivela Rid quando mi racconta di non volere che la madre venga a prenderlo a scuola, perché «fa sempre troppe mosse con le professoresse e si mette in imbarazzo». Noto la paura di finire nella dominazione in cui vede schiacciati i genitori: «Io non sarò mai un fallito come mio padre: lui non ha una macchina, non ha niente, e lavora dalla mattina alla sera. E per cosa?».
Dove va a finire il contenuto di questa rabbia? Le diagnosi dei servizi sociosanitari non ne interrogano la portata critica e soffocano questa complessità sotto la sigla di “disturbo oppositivo provocatorio”, un’etichetta diagnostica che si limita a descrivere una rabbia incontrollata ma svuotata dei suoi contenuti culturali, politici e sociali. La rabbia diventa neutra: Rid è nato così. Ma Rid si agita e vorrebbe dei genitori “normali”, anche i genitori vorrebbero un figlio “normale” – a questo tragico banchetto si unisce, a capotavola, il personale dei servizi sociosanitari che “si impegna per costituire una famiglia normale”. Ma cos’è la normalità per un ragazzino italiano di origini bangladesi della periferia di Torino? E cos’è la normalità per una coppia di genitori bangladesi immigrati in Europa, preoccupati di crescere nella maniera più adeguata un figlio che sfugge loro? Queste domande non sembrano interessare il personale dei servizi sociosanitari che ho conosciuto.
Fissati alla loro specifica idea di normalità, i professionisti dei servizi sociosanitari affermano: «Rid è un ragazzino italiano nato con dei problemi, ha il diritto di vivere come vivono i ragazzini italiani, i genitori devono togliersi questo posticcio habitus bangladese e imparare a essere dei genitori italiani, a gestire come si deve questa complessità». Normalità e italianità diventano sinonimi e, allo stesso tempo, due spettri animati dal razzismo e dalla violenza istituzionale che si cela dietro l’incapacità (o la mancanza di volontà) di interrogare la sofferenza. Tale violenza ragiona a partire da pregiudizi culturali: per i servizi, in particolare per la neuropsichiatra, i genitori non volevano accettare il disagio psichico del figlio perché «in Bangladesh non esiste la psichiatria e non sanno cosa sono i disturbi del comportamento, la sofferenza psichica è stigmatizzata; quindi, devono imparare ad accettare questa situazione e a fare i genitori come si è genitori in Italia, devono dimenticarsi com’era là. Non lo istruiscono alla bellezza, devono istruirlo alla bellezza».
Jas ha frequentato il college, parla un po’ di inglese, è la figura più istruita della famiglia e dal principio ha coinvolto il marito nella ricerca di un orizzonte di significato che giustificasse i comportamenti irrequieti e scontrosi di Rid. Jas e Sed sin da subito hanno considerato anche la componente psichica delle difficoltà di Rid ma, come tante persone bianche, la coppia non conosceva i meandri della psichiatria, le diagnosi comportamentali e i test intellettivi. Hanno portato istintivamente Rid in ospedale, per eseguire dei test neurologici e scongiurare lesioni o compromissioni di natura biologica. I test sono risultati negativi e la loro confusione è rimasta pesante.
Poi sono arrivati i servizi e hanno iniziato a parlare di “disturbi del comportamento” con poca cura di comunicare in maniera attenta quale fosse la loro precisa eziologia – solo in qualche incontro fugace hanno preteso che la famiglia potesse comprendere. Jas e Sed hanno concentrato la loro attenzione sul termine “comportamento”, confermando ciò che avevano già in mente da molto tempo: il problema di Rid riguarda il comportamento, l’educazione; Rid è monello, è fasil, e non pagol, non pazzo. Dunque è necessaria una disciplina più ferrea, c’è bisogno di più shashon. A causa di un’incomprensione nata dalla superficialità del lavoro dei servizi sociosanitari, il conflitto si esacerba e una disciplina più rigida inasprisce ancora i rapporti con il figlio. I genitori sono costretti a tenere nascosta questa disciplina per non essere accusati dai servizi di maltrattamento e di eccessiva severità. Il cortocircuito si estende e perde ogni traccia di ragione.
Diversi giudizi investono l’operato della famiglia: non sono capaci di educare, non sono in grado di comprendere, hanno abitudini culturali polverose. Eppure nessun membro dei servizi sociosanitari è riuscito a essere altrettanto critico nei confronti del proprio operato. Nei tre anni in cui io ho frequentato la famiglia la neuropsichiatra ha visto Rid poche volte, durante questi incontri la presunzione di conoscere attentamente le particolarità del ragazzo era tragica e ridicola. L’unica soluzione proposta alla famiglia è stata l’utilizzo di un farmaco che calmasse Rid, senza alcun’idea di affiancare una cura psicoterapeutica. Non c’era altro senso in questa prescrizione se non una forma coatta di controllo della rabbia.
In tre anni sono cambiati tre assistenti sociali la cui abitudine è sempre stata quella di strutturare interventi mai attuati, di incalzare discussioni che non hanno mai avuto un esito e di sparire di colpo, senza dare alcuna spiegazione. Il mio ruolo si è rivelato di fatto un tappabuchi, i servizi facevano affidamento sulla mia disponibilità, ma i campanelli di allarme sono rimasti sempre inascoltati, i suggerimenti caduti nel vuoto. Il razzismo e la sottile violenza che hanno animato spesso le relazioni tra famiglia e servizi mostrano la crisi di un sistema sociosanitario al collasso. E la rabbia di Rid non parla di questa indifferenza, di questa diffidenza e di questa netta separazione tra mondi? Non è dalla dannazione di vivere in un mondo che lo attira, lo controlla e lo abbandona che nasce la sua angoscia? Rid è ventriloquo della nostra violenza manichea, della nostra mortifera contraddizione.
Ho saputo sin da subito che la più grande passione di Rid erano gli animali e al ritorno dal viaggio in Bangladesh ho capito perché. Rid non ha fatto altro che raccontarmi dei suoi amici animali nel villaggio dei genitori – pecore, montoni, mucche con cui trascorreva le giornate giocando, insieme agli altri ragazzi e ragazze – e delle lunghe leggende che prendono vita intorno alla tigre del Bengala, l’animale simbolico che vive le cosmologie di quei luoghi e riflette la lunga storia di devastazione e violenza coloniale che ha distrutto il tessuto sociale e il rapporto con la natura in Bangladesh. Ancora una volta Rid mi ha piazzato di fronte le sue pungenti contraddizioni: odia il Bangladesh, eppure è il luogo delle sue più grandi passioni.
Alla vigilia del primo giorno di scuola superiore il padre, con tono provocatorio, raccomanda a Rid di andare a scuola vestito bene e pulito, ricordandogli che lui è italiano, non bangladese. «Allora Rid, sei nato in Italia o in Bangladesh tu? Me lo vuoi dire?», chiede il padre con tono provocatorio. «Sono nato sulla Luna io papà» risponde Rid, con il sorriso di chi sa, mentre io provo a trovare un senso alla mia presenza tra quelle mura, affacciato su altre contraddizioni ma aggrappato alla sicurezza di un’intimità vera a cui mi è stato concesso di partecipare. (toni lapolacca)
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