Il primo incontro con Mina è avvenuto in un locale di Bonn, era una sera di dicembre. «Sei italiano? – mi hanno chiesto alcuni ragazzi nel cortile antistante all’ingresso – Allora parla con Mina, lui ha vissuto in Italia». All’interno ho notato il bancone del bar, in fondo un palco teatrale e un calcetto nell’angolo. Era una serata di sostegno ai rifugiati organizzata dal Refugees Welcome, un collettivo di giovani attivisti. Ho scambiato poche frasi con alcuni rifugiati e con alcuni studenti tedeschi. Poi ho conosciuto Mina e ho ritrovato la mia lingua. «Ho studiato l’italiano in Egitto, a scuola. Dopo sono partito e ho ottenuto la laurea in ingegneria alla Sapienza». Mi ha confidato, quella sera, che in Germania non ha modo di parlare l’italiano: «Temo di perdere le parole con il passare del tempo».
Nello stesso locale ho conosciuto Pierre, un militante del collettivo. A differenza dei suoi compagni – quasi tutti studenti universitari – Pierre ha lasciato gli studi e lavora nei servizi sociali. Ho iniziato a informarmi sulle condizioni dei rifugiati in Germania. Pierre mi ha raccontato che chiunque ottenga lo status di rifugiato dispone di un salario minimo mensile: «L’ammontare della somma varia a seconda dei territori, qui si aggira intorno ai trecento euro. Inoltre ciascuno di loro ha diritto a un luogo dove dormire». A Bonn sono stati allestiti centinaia di posti letto provvisori nella vecchia sede dell’unità di amministrazione territoriale, altri ancora sono stati approntati in una struttura sanitaria dismessa da pochi mesi. Il comune ha annunciato che nel corso del 2015 saranno montati alcuni prefabbricati nei cortili di un’antica caserma militare in Ermekeil Straße. «Solo la città di Bonn accoglie circa novecento persone».
Qualche giorno dopo Pierre mi ha accolto nella stanza che il Refugees Welcome affitta dal comune, un piccolo spazio con tre computer e un frigo colmo di birre. Desideravo capire quali fossero le regole per ottenere un posto di lavoro. «Nei primi tempi è vietato lavorare. Sopra il permesso di soggiorno è scritto: “Non è consentito svolgere un lavoro salariato”. Solo dopo tre mesi è possibile avanzare una domanda di lavoro o di apprendistato nelle agenzie di impiego. L’agenzia concede un lavoro solo se il posto non è stato richiesto da un tedesco o da chiunque abbia un livello più elevato di formazione». Credo che le restrizioni legislative abbiano due intenti: limitare lo sfruttamento del lavoro irregolare e privilegiare l’impiego dei cittadini comunitari.
Mina ha trascorso la serata dietro al banco a distribuire birre e raccogliere monete con l’aria di vagare altrove con il pensiero. «Ora lavoro come lavapiatti in un ristorante del centro. Sono tante ore di fila, sai, ma non è troppo pesante perché abbiamo delle pause di tanto in tanto, così posso fumarmi una sigaretta». Il discorso torna sulla sua laurea, sull’Italia. «La situazione laggiù è disastrosa. Non ho trovato un impiego e sono stato costretto a lasciare Roma. Se avessi qualche speranza di lavorare tornerei subito in Italia». Una ragazza bionda gli ha dato il cambio al bancone e siamo usciti fuori al freddo dell’inverno tedesco. Nel cortile c’è un bus dismesso, colorato e pieno di disegni; dentro tedeschi e africani bevevano seduti sui sediolini, discorsi tenuti a voce bassa uscivano appena dai finestrini aperti.
Durante un’altra serata si è avvicinato a me un uomo proveniente dalla Guinea: «Parli francese, sì? Parliamo francese, il tedesco è troppo difficile perché bisogna sapere i verbi». Quasi non ricordo il suo aspetto se non per una certa compostezza nell’espressione e una calma nei movimenti. «Sono qui per lavorare, non per ricevere i sussidi statali. Voglio darmi da fare, capisci? E non riesco a trovare un lavoro. Niente. Bisogna insistere». Dalla sua voce ho intuito una vibrazione conflittuale, una tensione fra l’esigenza di ricevere un salario di sussistenza e la spossatezza dovuta a una vita orfana di orizzonti, cadenzata dalla ripetizione di giornate tutte uguali.
L’impiego dei fondi statali per l’accoglienza è un tema delicato perché attira il malumore aspro delle classi sociali a rischio d’impoverimento, soprattutto nelle regioni più depresse della Germania orientale. La paura e l’insicurezza sociale tendono a sfociare nella difesa della tradizione e delle radici nazionali: molti cittadini negli ultimi mesi sono scesi in piazza per affermare la priorità dei valori tedeschi. Sotto l’acronimo di Pegida (“Europei patriottici contro l’islamizzazione delle terre d’occidente”) hanno sfilato in migliaia da Dresda a Colonia, tracciando sugli schermi dei televisori una scia di cupe immagini: marce notturne, bandiere nazionali al vento, bagliori di fiaccole nel buio. I programmi in prima serata, i giornali e quasi tutti i partiti si sono prodigati per emarginare Pegida al di fuori del mondo istituzionale e civile. Forse ne hanno solo rafforzato la retorica populista e la coscienza di incarnare una forza antitetica al sistema democratico.
Era la metà di dicembre quando Pegida ha tentato di organizzare una marcia a Bonn. Uno sparuto gruppo di cittadini carico di volantini contro la cultura islamica si è riunito nella piazza di fronte alla stazione. I manifestanti non hanno mosso nemmeno un passo perché un fitto assembramento di dimostranti legati a sigle studentesche, collettivi cittadini e varî gruppi politici ha improvvisato un accerchiamento bloccando tutte le strade intorno. Ho trascorso alcuni minuti fra gli uomini e le donne di Pegida e ho notato volti coperti dal bavero delle giacche scure, sguardi amari a tratti disorientati, alcuni occhi segnati dalla rabbia. Intorno alle fiaccole si era disposto un nutrito cordone di polizia mentre da ogni angolo rifluivano gli slogan di una sinistra unita in nome dell’identità antifascista. Il coro principale era in italiano: «Siamo tutti anti-fa-scisti». Poi ho attraversato le maglie della polizia e ho camminato fra le bandiere della SPD e i drappi rosso-neri. Non ricordo di aver visto i rifugiati, né cittadini appartenenti alla comunità turca di Bonn.
Una sera ho domandato a Sara, membro di Refugees Welcome e studentessa di letteratura, quale fosse l’orizzonte di azione degli attivisti tedeschi. «Noi ci impegniamo affinché i rifugiati acquisiscano una loro autonomia nella vita di tutti i giorni e prendano coscienza della loro condizione politica e dei loro diritti». Ma durante le riunioni mi sono reso conto di quanto questo tipo di impegno politico tenda a sopperire alle carenze delle istituzioni. I pochi incontri cui ho assistito si sono concentrati sulle traversie burocratiche; io stesso mi sono impegnato a gestire le pratiche sanitarie e assicurative dei rifugiati che dopo la crisi italiana dell’Emergenza Nord Africa hanno raggiunto la Germania speranzosi di essere accolti.
Yousuf è nato in Nigeria e fino al 2011 ha lavorato in Libia, poi ha attraversato il mare per sfuggire al conflitto. Nello stanzino degli attivisti mi sono seduto al suo fianco, fra le dita teneva la tessera sanitaria italiana. Due anni fa ha deciso di lasciare Macerata e di raggiungere la Germania, nonostante i regolamenti di Dublino impongano ai profughi di restare nel paese che ha accettato la domanda di accoglienza. Yousuf adesso ha un visto provvisorio che dura pochi mesi, ha chiesto accoglienza a Bonn e attende la decisione definitiva delle autorità tedesche. È un uomo dall’espressione seria, in un’ora mi ha lasciato solo poche, ferme parole in inglese. «Cosa ricordi della Libia?», ho domandato d’un tratto; Yousuf ha fissato la parete, come se non fosse stato raggiunto dalla mia voce.
La domenica dopo il Carnevale ho partecipato alla riunione del collettivo. Eravamo nello stanzino con il frigo delle birre e sul tavolo si stendeva un ordine del giorno denso di nuove pratiche: trasferimenti territoriali, richieste abitative, assicurazioni sanitarie. Con noi c’erano anche tre o quattro rifugiati, tutti coinvolti in prima persona dai temi della riunione. Così ho pensato a Torino e all’occupazione delle palazzine dell’ex Villaggio Olimpico. In Italia ci confrontiamo con le speculazioni delle associazioni di terzo settore e con l’inconsistenza di istituzioni incapaci di garantire ai rifugiati i diritti di base, mentre in Germania il salario e l’abitazione sono assicurati in un generale clima di assistenzialismo. Paiono due mondi diversi, mi chiedo se sia davvero così. Rifletto sulle analogie: a Bonn come a Torino sento scorrere un tempo continuo e omogeneo, lento fluire lungo giornate senza domani. E noto, a Torino come a Bonn, la stessa separazione fra noi e loro, fra gli attivisti e i rifugiati, gli europei e i migranti, i privilegiati volenterosi e i poveri sommersi. La frattura abita silenziosa i nostri pensieri, i nostri discorsi, le nostre azioni.
È ormai la fine della riunione e seguo stanco con lo sguardo il circolo dei partecipanti. A un tratto mi soffermo su Mina. Sta traducendo in arabo alcune frasi affinché un rifugiato possa meglio intendere. Ho come un’intuizione: Mina è una figura di transizione. Nordafricano in Europa, arabo e copto, laureato italiano in fuga dalla disoccupazione, attivista politico in Refugees Welcome, lavoratore a contratto, migrante senza protezione sociale. Se seguo i suoi lineamenti scolpiti nel viso magro, riesco a immaginare la composizione complessa del presente in cui viviamo: mi appare il Mediterraneo, vedo i movimenti dei popoli, dalla Libia in Italia, poi in Germania; percepisco le leggi del mercato e i rapporti contrattuali, la crisi di tutti noi immersi in questo tempo senza orizzonti, i nostri viaggi e gli incontri nelle terre del nord. Scende la sera, Mina è come l’emblema della nostra condizione universale. Non si tratta di una universalità astratta, non ha nulla a che vedere con “l’umanità” e i suoi “diritti”; è invece un legame che ci avvicina nella circostanza, una comunanza del qui e ora che ci avvolge – per un attimo ci riconosciamo nella corrispondenza degli sguardi. (francesco migliaccio)
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