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9 Febbraio 2017

Il ritorno della compagnia Le Albe a Napoli, alle origini della non-scuola

Francesca Saturnino aristofane a scampia, arrevuoto, bologna, carmelo bene, emilia romagna, ermanna montanari, ex asilo filangieri, festival di santarcangelo, foqus, gabriella figini, giordano bruno, goffredo fofi, le albe, marco martinelli, motus, napoli, punta corsara, sala assoli, teatro valdoca
(archivio disegni napolimonitor)
(archivio disegni napolimonitor)

«Fanatici della lenta semina, di ciò che dura e al contempo è in continuo movimento e non si riconosce in perimetri chiusi, muri alzati. Come se avessimo continuamente bisogno di aperto, dell’incontro. […] Se non c’è una relazione amorosa in palcoscenico non succede assolutamente nulla. Si è solo bravissimi attori. Deve invece compiersi una preghiera, un atto amoroso di bellezza, anche errando, sbagliando». Dopo oltre trent’anni di teatro Marco Martinelli ed Ermanna Montanari per raccontarsi scelgono ancora le parole che fin dagli inizi li hanno caratterizzati. Parole “analogiche”, in disuso in questi tempi veloci e senza peso; parole che nel tempo hanno assunto la sostanza di una pratica riconoscibile, un metodo. Non tornavano a Napoli da un bel po’: sia a teatro – Casa del Contemporaneo ha dedicato alla compagnia Le Albe un focus tra Sala Assoli e Salerno – che in città – due incontri pubblici previsti tra ex Asilo Filangieri e Foqus – l’accoglienza è stata grande. Una specie di festa. Si può dire senza giri di parole che Le Albe sono una delle poche compagnie italiane a essere state in grado di imbastire un rapporto col territorio (teatrale e non) partenopeo senza la presunzione di capire o stabilire questo e quello, ma calandovisi dentro, senza troppi filtri.

Venuti fuori da un crogiuolo politico-sociale del tutto atipico come quella che poteva essere l’Emilia Romagna degli anni Settanta, Le Albe come la Societas Raffaello Sanzio, il Teatro Valdoca, i Motus si sono nutriti di un contesto culturale che ha fatto sistema intorno al Dams di Bologna e al Festival di Santarcangelo e dove ancora qualche “miracolo”, anche a livello istituzionale, era possibile. «La “non-scuola” – racconta Martinelli durante l’incontro al Filangieri – è nata all’inizio degli anni Novanta. Il direttore dei teatri di Ravenna andava in pensione dopo aver lavorato con grande passione. Era lui che aveva continuato a portare Carmelo Bene anche quando gli abbonati gridavano che non lo volevano più. Allora c’era ancora il Pci. Tra tutti i giovani quadri di partito non c’era nessuno che amava veramente il teatro».

Martinelli e la Montanari, già coppia sulla scena e nella vita, risultarono gli unici «quattro sciamannati anarchici» in grado di imbarcarsi in un’avventura simile. «Nel momento in cui abbiamo accolto questo dono – continua Martinelli –, ci siamo anche chiesti se non fosse un cavallo di Troia. Erano già dieci anni che facevamo fame e freddo da teatranti indipendenti, dieci anni in cui tutti, a cominciare dai genitori, ti dicevano “ma smettila, smettila di fare il buffone, trovati un lavoro serio”. Il rischio era diventare dei burocrati, come tanti colleghi: ho in mano un teatro, ho la seggiola sotto al sedere, mi chiudo e dallo spioncino guardo fuori. Quante volte succede che chi ha già una posizione ammazza i più giovani, li fa fuori».

Da una morte per burocrazia li salvò il caso: un incontro con Gabriella Figini, la prof di un istituto tecnico che li invitò a insegnare teatro ai suoi studenti. Da qui si articola anche il racconto sul metodo della non-scuola descritto per tappe nel libro di Martinelli Aristofane a Scampia da poco pubblicato (Ponte alle Grazie editore). «Anche in quel caso il nostro essere “asinini” – l’asino eretico di Giordano Bruno è da sempre il simbolo de Le Albe – ci ha aperto la strada. Gli asini non sanno, né insegnano. Siamo andati dagli studenti e abbiamo scoperto che questi adolescenti che odiavano il teatro e amavano solo il calcio, la musica rock, la discoteca ribollivano di Dioniso. Il teatro li abitava, anche nelle loro parolacce, nelle loro risse».

Fare agire quel fuoco incontrollato con un uso consapevole di Aristofane, Shakespeare, Brecht. Una tecnica di “contagio”, di “sfregamento”. Così è nata la non-scuola. Da trenta ragazzi a trecento, tanti sono quelli che ogni anno, senza selezione, frequentano i laboratori de Le Albe. Da Ravennate a Mazzara del Vallo fino a Lamezia Terme, a Chicago, a Scampia, dove nel 2005 Le Albe approdarono sfrocoleati da Goffredo Fofi. Da lì nacque l’esperienza di Arrevuoto, oggi alla sua undicesima edizione; da lì nacque anche Punta Corsara, guidata da Emanuele Valenti, che oggi è una delle giovani compagnie napoletane che più si muove sul territorio nazionale.

«Archeologia è il buio, l’incontro con l’altro, gli ipogei, la mia voce tetra. Non riesco a non pensare al teatro senza lo spazio, è qualcosa che emerge dal buio. Dioniso sta per sei mesi sotto terra e sei mesi sopra, la fecondità a che fare con l’alto e il basso. È una danza. È questa l’arte della memoria. Meldolesi mi diceva “ma tu vuoi fare l’archeologa o vuoi fare teatro?”. Tutte e due. Va bene, allora l’archeologia la metti in scena. Mi diede una tesi sui dialoghi italiani di Giordano Bruno», racconta Ermanna Montanari a proposito della ars memoriae che la compagnia pratica fin dal principio. Di questo perenne – trans-storico e trans-generazionale – incontro con l’altro sono imbevuti tutti i lavori della compagnia, a cominciare dallo storico Rumore di acque (2010) riproposto per il focus di Casa del Contemporaneo, frutto di una residenza della compagnia a Mazzara del Vallo, che ha anticipato il tema di Maryam presentato in anteprima nazionale a Napoli.

“Um una Maryam”, Maria madre palestinese invocata da profughe, madri, figlie, migranti, prefiche che in terra santa d’Oriente chiedono umana vendetta per le loro quotidianità sopraffatte dal dominio maschile. La potenza della messa in scena esplode nell’urgenza di queste settimane, di questi mesi di morti annegati, di permessi negati, di folle di donne in marcia in tutto il mondo: alla Montanari – unica officiante in scena – sono affidate le voci che provano a colmare quel vuoto tra l’impassibile cronaca e la sacrosanta necessità di compassione – nell’accezione pura di cum patior – nei confronti dell’inferno che ci circonda e che, muri o no, ci è vicino. Profondamente sensata e più che contemporanea anche la scelta di rintracciare e isolare una matrice femminile di questa preghiera/rivolta, in opposizione a un sistema organizzato di violenza maschile di ordine patriarcale; tanto per andare oltre confine, quando questo testo è stato scritto la presidenza Trump forse non era neanche immaginabile. Considerando anche l’allestimento scenico, con proiezioni e sovrapposizioni di video, musiche, foto, e la voce polisemica e carnalissima della Montanari, Maryam è un lavoro più che post-moderno.

La necessità, verrebbe da dire pedagogica, di aprire e allargare spazi di confronto è nel dna della compagnia che da alcuni anni dà luogo ai Parlamenti di Aprile. Spiega la Montanari all’ex Asilo: «Ci incontriamo in primavera per parlare con persone che ci hanno infiammato e che ci infiammeranno. Sul teatro, sulla politica, sulla critica. In quei giorni si ferma tutto. Invitiamo giovani studiosi e studenti». La prossima edizione sarà un vero e proprio festival, dal titolo Enter. «Siccome tutto viene sputato fuori, si alzano i muri (anche se si dice che i muri crollano) noi facciamo un festival in cui si può entrare in questi cuniculi bui con filosofi, teologi, illustratori. I parlamenti sulla bellezza». Una bellezza contagiosa, una “lenta semina”. In attesa del prossimo ritorno. (francesca saturnino)

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