Sono gli ultimi giorni della mostra fotografica sul ’68 studentesco a Napoli, allestita nella sala Esposizioni della Biblioteca Nazionale (a cura di Antonia Cennamo, Luigi D’Amato e Lucia Marinelli), preceduta nei mesi scorsi da incontri e dibattiti che hanno coinvolto l’Istituto italiano per gli studi filosofici e quello campano per la storia della Resistenza, oltre a essere l’occasione per arricchire il fondo audiovisivo che contava già una ventina di interviste realizzate per il trentennale.
Nella sala Rari della biblioteca, lo scorso 10 maggio è stato presentato il libro Il ’68 a Napoli (La scuola di Pitagora editrice, 2018), in cui gli interventi di Gianfranco Borrelli, Vittorio Dini e Antonio Gargano precedono un’antologia di documenti del movimento studentesco, perché questi – come ha scritto Girolamo Imbruglia riferendosi a un altro meritorio lavoro di ordinazione e messa in rete, operato da Alfredo Laudiero – “rappresentano la storia reale, non romanzata […] di quel movimento”.
Come altrove, anche a Napoli l’insieme di eventi che vanno sotto il nome di Sessantotto s’innesta in un processo di mobilitazione che prende avvio fin dall’inizio degli anni Sessanta. Portando il concetto all’estremo si potrebbe affermare che a Napoli tutto comincia in uno scenario molto distante dalle aule universitarie e dai laboratori di ricerca che in seguito faranno da sfondo alla contestazione studentesca. Nell’inverno del ’62 padre Mario Borrelli – che nel dopoguerra aveva condiviso la vita di strada con bambini e ragazzi senzatetto, e per accoglierli aveva fondato a Materdei la Casa dello scugnizzo –, decide di andare a vivere in una delle baracche del Ponte della Maddalena, insediamento a ridosso del porto dove abitano quasi duemila persone. Secondo un censimento comunale, nel 1960 sono in tutto seicento le famiglie che abitano in baracca nel centro cittadino.
A Borrelli si affianca, nella primavera del ’64, Antonino Drago, appena laureato in Fisica all’università di Pisa, dove si è legato agli ambienti del rinnovamento cattolico post-conciliare. Intorno a Drago si forma un piccolo gruppo di studenti universitari e di freschi laureati, molti dei quali fuoriusciti da organizzazioni cattoliche come la Fuci o la Congregazione mariana. Su impulso di Borrelli il gruppo comincia a fare inchiesta sulle condizioni dei baraccati e organizza le prime azioni nonviolente – per esempio un digiuno collettivo in piazza Municipio – per portare la questione all’attenzione dell’opinione pubblica cittadina.
Nel frattempo all’università alcune avanguardie di studenti, affiancati da assistenti e professori incaricati, cominciano a mettere in discussione il potere accademico racchiuso fino a quel momento nelle mani di pochi docenti. Nell’aprile ’65, in un convegno al Maschio Angioino, sostengono l’accorpamento di tutte le facoltà in un unico quartiere, Fuorigrotta, per tenere insieme le attività didattiche con quelle di ricerca. Il rettore Tesauro, però, ha già annunciato la costruzione di un nuovo Policlinico e la nascita di una seconda facoltà di Medicina nella zona dei Colli Aminei. Il progetto è l’esatto opposto dell’accorpamento di sedi e della creazione di dipartimenti interdisciplinari, come vorrebbero gli studenti. Il Libro bianco sull’edilizia universitaria è dell’aprile ’66, frutto di un’inchiesta che coinvolge decine di studenti, assistenti e professori incaricati. Vi si denuncia, tra le altre cose, la speculazione sui suoli circostanti la zona prescelta per il nuovo Policlinico, operata da società in cui sono presenti il figlio del preside della facoltà di Medicina, Verga, e il costruttore Ferlaino.
A metà degli anni Sessanta cominciano anche i cortei contro la guerra del Vietnam, di cui si fa promotore a Napoli Gustavo Herman, che poi capeggerà i marxisti-leninisti all’inizio degli anni Settanta. Queste manifestazioni, così come l’occupazione della sede centrale dell’ateneo nell’aprile ’66, dopo la morte dello studente Paolo Rossi a Roma per mano fascista, e quella per la morte del Che Guevara nell’ottobre ’67, costituiscono i punti di svolta per molti partecipanti al movimento.
L’11 dicembre ’67, in un’assemblea che si tiene sullo scalone della Minerva perché l’aula magna non basta a contenere tutti i partecipanti, avviene la consacrazione della Sinistra Universitaria come forza guida del movimento. I vecchi organismi rappresentativi legati ai partiti si dissolvono in un lampo, la forma assembleare sostituisce il vecchio parlamentino universitario come organo decisionale e formazioni come SU conquistano l’egemonia politicizzando la lotta e respingendo ogni influenza proveniente dalla sinistra tradizionale.
L’obiettivo di SU non è la riforma universitaria, che sarebbe funzionale alle tendenze dello sviluppo capitalista, ma il rovesciamento del sistema attraverso l’azione rivoluzionaria. Un’azione che va ponderata adeguatamente, attraverso lo studio e il dibattito teorico. Una posizione in antitesi con la concezione degli studenti come classe e la proposta di sindacalizzazione proveniente dal nord Italia (le Tesi di Pisa sono del febbraio ’67). SU, in coerenza con la sua matrice leninista, mira a costituire una formazione autonoma che prenda le distanze dalla sinistra riformista ma anche dalle ipotesi di potere studentesco; progetto destinato al fallimento, anche per la riluttanza a verificare le acquisizioni teoriche collegandosi con altri segmenti della società napoletana, dagli operai di fabbrica al proletariato marginale. La scelta di rimandare ogni intervento alla dettagliata formulazione di una strategia complessiva intaccherà le capacità di direzione di SU, causando la perdita della posizione preminente acquisita alla fine del ’67, e quindi la successiva, relativamente rapida disgregazione.
Vittorio Dini, che nel suo intervento mette l’accento sulla “brevità” di quella stagione, tratteggia i caratteri dell’altro polo del movimento studentesco, quello insediato nella facoltà di Architettura, più ludico e meno sistematico della Sinistra Universitaria, più sensibile alla libertà di espressione che alla definizione di una dettagliata prospettiva rivoluzionaria. Antonio Gargano ritorna invece sulla storia di SU, esaltando la ricchezza e complessità dell’apporto, testimoniato dalle sue numerose articolazioni. Tra queste, il Centro, formato da una dozzina di militanti “anziani” e dedito esclusivamente alla ricerca teorica, è sicuramente la più singolare e affascinante, oltre a costituire – attraverso figure come Ennio Galzenati, Ugo Feliziani e Gerardo Marotta – l’anello di congiunzione con esperienze del passato, come il Gruppo Gramsci dei primi anni Cinquanta, e con altre ancora da venire come l’Istituto per gli studi filosofici che l’avvocato Marotta fonderà a metà degli anni Settanta.
Gianfranco Borrelli evidenzia la connessione della “migliore gioventù” napoletana con le correnti di pensiero e azione più avanzate del tempo, ma parla anche di “occasione perduta”, contrapponendo ai magri risultati in ambito politico la ribellione individuale prima che collettiva: la messa in discussione di genitori, insegnanti, superiori gerarchici, la liberazione dei costumi sessuali, il rifiuto dell’autoritarismo, l’interazione e lo scambio tra diverse figure sociali. Una contaminazione tra elementi esistenziali e discorso politico che non si tradurrà però in un progetto di lungo respiro.
Un indizio di questo incontro mancato si può rintracciare, per esempio, durante le lotte per la casa che esploderanno nei primi mesi del ’69 con centinaia di occupazioni, coinvolgendo circa seimila persone. Gli occupanti, che mettono in discussione il sistema clientelare di assegnazione degli alloggi popolari dominato da partiti e sindacati, sono organizzati in comitati dove forte è l’influenza di quei gruppi di volontari che nel frattempo si sono moltiplicati, seguendo i baraccati dalla Marina verso i nuovi rioni di periferia, dove questi hanno ottenuto le case ma in un deserto di servizi e isolati dal resto della città. Le organizzazioni egemoni tra gli studenti sono però restie a confrontarsi con settori sociali che hanno strutture e comportamenti di lotta piuttosto eterogenei. Le distanze antropologiche e di classe si traducono nella formula che contrappone “spontaneismo” e “organizzazione”. Il tentativo di collegare le università in lotta con i comitati di quartiere fallirà ancor prima di cominciare. Nel giro di pochi mesi, le rappresaglie sul posto di lavoro, l’approvazione di sussidi e gli sgomberi reiterati avranno la meglio sulle capacità di resistenza degli occupanti.
La parabola delle mobilitazioni, non solo studentesche, che tra il ’67 e il ’69 tocca il suo apice, per molti di quelli che vi hanno preso parte fin dall’inizio del decennio, segna piuttosto la chiusura di un ciclo che l’apertura di una nuova stagione. Dopo l’autunno caldo, quando la militanza appare sempre più condizionata dalle dinamiche di attacco e difesa nei confronti delle squadre fasciste e della repressione messa in atto dalle forze dell’ordine, per molti si pone con urgenza la necessità di trovare un’uscita di sicurezza, che spesso conduce lontano da Napoli: per studiare, per aggiornarsi, per imparare un mestiere. In seguito entreranno nelle università, negli istituti di ricerca, nella pubblica amministrazione, ma non saranno più coinvolti direttamente in politica, né in quella dei gruppi extraparlamentari che si sviluppa nei primi anni Settanta, né in quella istituzionale, di cui il Pci sarà protagonista e geloso depositario dopo i successi elettorali del ’75-76.
È anche per questa ragione che quella del Sessantotto napoletano è una storia misconosciuta, se non da chi vi ha preso parte direttamente; da un lato per la cronica debolezza delle istituzioni culturali cittadine, che non sono mai riuscite a far breccia nella rappresentazione mediatica nazionale incentrata su alcuni episodi-chiave avvenuti nelle università del centro-nord, dall’altro per la scarsità di indagini storiche intraprese nei cinquant’anni trascorsi da allora.
Così non sorprende che il discorso odierno sulla città, rilanciato anche nei giorni scorsi da un paio di eventi istituzionali – il congresso del partito del sindaco e il rilancio della Fiera del libro – riproponga cliché che sembrano immutabili, resistenti a qualsiasi messa in discussione: sul piano politico l’ennesima versione della forma-partito, tutta e solo in funzione di supporto all’ascesa del leader carismatico; sul piano culturale un eterno provincialismo, che si divide tra l’ossequio ai “magnifici rettori” e gli innocui baloccamenti di giallisti e altri improvvisati maitre-a-penser.
Quel che definiamo Sessantotto, in ogni luogo del pianeta esso si sia manifestato, ci ha mostrato che per fortuna sotto la superficie dei riti istituzionali e dei salamelecchi ai potenti, covano, per quanto flebili e trascurati, lo spirito critico e la voglia di ribellione. È un insegnamento da tenere a mente, anche quando ogni apparenza sembra dirci il contrario. (luca rossomando)
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