È un venerdì di fine gennaio, ultimo giorno della settimana di lavoro. Entro a scuola alle dieci ed esco alle quattordici. Nella classe dove lavoro i bambini della quarta elementare sono seduti nei loro banchi monoposto e ascoltano con attenzione la maestra. Sono un assistente educativo culturale, ora ci chiamano operatori educativi per l’autonomia. Svolgo un lavoro delicato: mi occupo delle relazioni di aiuto con i ragazzi con disabilità nelle scuole elementari e medie. Il mio ruolo è accostato a quello di un’insegnante ma la peculiarità è rappresentata dall’attitudine a operare in modo orizzontale. Affianco il bambino mentre colora e aspetto con impazienza il suono della campanella. Torno a casa e la sera ricevo una chiamata. Sento la voce del mio collega: «Pe’, ci sei domani? Ci vediamo alle otto vicino casa tua, ok? Poi ti spiego». Stacco il telefono e la mattina scopro che devo raggiungere il liceo classico e linguistico Kant nel quadrante est, a Tor Pignattara.
Sulla strada rifletto sull’importanza di andare lì e solidarizzare con gli studenti. Quasi un anno fa, nel mese di marzo, con la chiusura delle scuole molti di noi sono rimasti senza stipendio per tre mesi. Nella storica contrapposizione tra garantiti e non tutelati, noi come AEC/OEPA facciamo parte della seconda categoria: riceviamo miseri guadagni in busta paga, un monte ore variabile di anno in anno, non percepiamo il salario quando il bambino è assente o la scuola è chiusa, non usufruiamo del pasto in mensa. Siamo parte di un meccanismo, quello degli appalti, che alimenta le diseguaglianze: i lavoratori sono sottoposti a regimi contrattuali, retributivi e di controllo sempre più differenziati. Questo crea isolamento e difficoltà a ricomporre un’organizzazione collettiva, una rete in grado di legare insieme tutti gli attori che operano nella scuola. Per questo è importante andare in questo liceo stamattina.
Incontro il mio collega e portiamo la solidarietà come comitato romano AEC (ora CAOS[1]) insieme ad altre realtà autorganizzate. Nelle prime ore del mattino un centinaio di studenti e studentesse, genitori e insegnanti si riuniscono in assemblea straordinaria. Prima si trovano nel piazzale di fronte la scuola, poi chiedono e ottengono di trasferirsi nel cortile interno. In quei giorni, come stabilito dal Dpcm, la didattica si svolge metà in presenza e metà a distanza. Gli studenti lamentano la centralità assunta dalla didattica a distanza, lo scarso funzionamento della connessione interna alla scuola, la carenza dei mezzi di trasporto, l’incapacità di individuare le condizioni di sicurezza per assicurare lo svolgimento delle lezioni al cento per cento.
Alle nove gli studenti decidono di chiudersi dentro la scuola. Di fronte a loro si trova uno schieramento importante di forze dell’ordine. Uno studente prova a bloccare con la catena i cancelli e gli agenti si lanciano contro il ragazzo. Lo strattonano, lo prendono per il collo, lo mettono in un angolo. La scena è raccapricciante, gli studenti chiedono con il megafono che la polizia se ne vada, ma gli agenti continuano a scagliarsi addosso allo studente. Un ragazzo riesce a riprendere l’aggressione. Il video viene rilanciato subito in rete. Nel frattempo arrivano i comunicati di solidarietà di altri collettivi studenteschi e coordinamenti territoriali. Un articolo di giornale, uscito nei giorni seguenti, sottolinea come gli studenti abbiano saputo applicare tutte le condizioni di sicurezza necessarie per poter tornare a fare didattica in presenza. Mascherine, gel, distanziamento, termometro a infrarossi all’ingresso per la rilevazione della temperatura sono le misure messe in campo dai ragazzi. Spiegano le regole da rispettare per non fare assembramenti: si danno il cambio perché dentro l’edificio non possono essere più di cento.
Qualche giorno dopo partecipiamo insieme ad altri gruppi a un’assemblea che si tiene dentro al liceo Kant. All’esterno altre realtà come il GAM decidono di spostare la distribuzione dei pacchi alimentari davanti ai cancelli dell’istituto occupato. Nell’assemblea i ragazzi illustrano le richieste avanzate alla scuola in sede di Consiglio d’istituto: chiedono la riapertura delle entrate secondarie, un termo-scanner all’ingresso e l’allestimento di un presidio di fronte la scuola per l’effettuazione dei tamponi; la sostituzione delle sedie per conferenza, impossibili da utilizzare per la consultazione dei libri. Gli studenti e le studentesse del Kant fanno capire a tutti che si può tornare a fare didattica in presenza. È un messaggio forte che arriva a tutta la città. L’occupazione dura sei giorni, il 28 gennaio lasciano la scuola. Il giorno dopo SiCobas e SLAI Cobas indicono uno sciopero generale rivolto a tutti i lavoratori della scuola: pubblici, privati e dipendenti delle cooperative. Alla manifestazione partecipano studenti delle scuole superiori, il Kant, l’Albertelli, il Mamiani, il Virgilio, il Socrate e uno spezzone delle scuole dei castelli romani. C’è anche una nostra presenza come CAOS. Quel giorno gli studenti del liceo classico Albertelli di via Manin all’Esquilino rientrano nel loro istituto e lo occupano. Rivendicano una scuola che non si appiattisca sui meccanismi di valutazione ma che risponda ai veri bisogni degli studenti. Una struttura che non attribuisca al dirigente scolastico il ruolo di referente unico della scuola che svuota di potere gli altri organi (es. il collegio dei docenti).
All’indomani dell’occupazione appare alquanto bizzarra, se non pericolosa, la decisione presa dal dirigente scolastico dell’Albertelli. Il 30 gennaio sul sito internet della scuola compare infatti un avviso non firmato, non datato e privo del numero di protocollo. Viene stabilito dal dirigente che l’attività didattica fino al 3 febbraio, ultimo giorno di occupazione, prosegua in didattica a distanza al cento per cento. Il provvedimento è illegittimo: il Dpcm parla chiaro, deve essere previsto almeno il cinquanta per cento di didattica in presenza. I genitori prendono posizione. Inviano una lettera ai docenti e ai giornali e chiedono agli insegnanti di astenersi dal tenere lezioni a distanza nelle ore in cui sono previste lezioni in presenza. I docenti appoggiano gli studenti e il provvedimento del dirigente viene boicottato dal collegio dei docenti. Non si può dimenticare che sono passati appena due mesi da quel 4 dicembre in cui le lavoratrici della cooperativa Roma 81 sono state respinte all’ingresso dell’istituto comprensivo Rodari per ordine della dirigente scolastica. Anche lì, un’importante mobilitazione cittadina era riuscita a contrastare le decisioni della dirigente.
Ma ci sono altri esempi di come la costruzione di reti tra lavoratori e destinatari dei servizi possa portare al successo. Per esempio, la vicenda delle addette alle pulizie degli enti amministrativi che si occupano dell’istruzione pubblica di Kensington e nel quartiere Chelsea di Londra. Le lavoratrici nell’agosto del 2018 ottengono la reinternalizzazione dei servizi di pulizia. Grazie alla nascita di una rete che riesce a ricomporre le divisioni che l’esternalizzazione rafforza. Le lavoratrici, prevalentemente donne migranti, riescono a vincere questa battaglia attraverso il coinvolgimento dei lavoratori internalizzati e degli utenti (in questo caso gli studenti universitari). In questa rete i fruitori dei servizi vengono coinvolti in prima persona e questo permette di rimodellare i rapporti di forza. La mobilitazione messa in campo riesce da un lato a denunciare la scarsa qualità dei servizi e dall’altro a rendere i lavoratori meno ricattabili.
Queste vicende dimostrano la centralità che le reti solidali possono assumere. Le reti bloccano le fratture sociali e incoraggiano la costruzione di percorsi comuni con la precarietà metropolitana, innescando forme di partecipazione che mettono al centro la costruzione di un’assistenza territoriale inclusiva. Una comunità che ricostruisca una sanità territoriale non dipendente dagli ospedali e che abolisca il principio dell’esternalizzazione dei servizi a partire dalle cooperative; che restituisca dignità ai lavoratori che operano nei servizi sociali, nella sanità e nella scuola; che metta ai margini il profitto e provi a ridare un volto umano a quei servizi che operano con le persone rispettando l’altezza dei loro occhi. (giuseppe mammana)
[1] Coordinamento AEC Operator* sociali auto-organizzati. L’assemblea del 29 gennaio ha decretato la fine dell’esperienza svolta come comitato, assumendo una nuova identità che provi a rappresentare gli AEC e gli altri social worker che operano nei servizi sociali.
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