Dieci anni fa, nel decimo anniversario dell’assassinio di Enzo Baldoni, morto in Iraq in circostanze assai ambigue, pubblicammo una riflessione di Riccardo Orioles – scritta a pochi giorni dalla sua morte – sul “come” ogni persona che si prende la responsabilità di raccontare qualcosa dovrebbe approcciarsi alla realtà, sul ruolo del giornalista nel mondo che cambia continuamente, e sempre più velocemente, sull’insignificanza dei notabilati e dei baracconi che pensano di poter dirigere e organizzare questo mestiere.
Oggi sono vent’anni che è morto Enzo Baldoni e la situazione descritta da Orioles è solo peggiorata. L’unica cosa che ci sembra sensato fare, quindi, è pubblicare uno dei reportage di questo giornalista con la passione per il viaggio e l’ossessione per la scoperta. E naturalmente insistere nel nostro sforzo quotidiano, che dalla sua e da altre rare figure trae ispirazione e coraggio, nonostante tutto.
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Provate a mettervi nei panni di un ragazzino che l’ultima squadra per cui ha fatto il tifo era la Virtus, la squadretta delle scuole medie per cui giocava (male) in porta.
Provate a mettervi nei panni di un giovanotto che l’unica volta che è entrato a San Siro è stato da militare, di ronda, una domenica stracca e nebbiosa.
Provate a mettervi nei panni di un uomo che, al lunedì, salta a piè pari le pagine sportive e passa direttamente dalla politica estera agli spettacoli.
Come darvi torto se, disgustati, avete già abbandonato queste righe per passare al prossimo articolo? Ma se per caso avete trovato il coraggio di continuare, provateci a mettere lo stesso uomo – così totalmente vergine di calcio – in mezzo a uno dei massacri più feroci, orrendi e crudeli di questi ultimi tempi, che pure di massacri feroci, orrendi e crudeli sono stati prodighi: quello di Timor Est.
Immaginate che, nei giorni peggiori della crisi, mentre le milizie e i soldati indonesiani uccidono a colpi di machete e di fucile uomini, donne e bambini innocenti, quest’uomo – che per sbaglio fa il giornalista – grazie a una serie incredibile di colpi di fortuna, riesca a essere invitato nel bunker dove, protetto dai servizi segreti britannici e dalla sua guardia del corpo personale, vive e lavora il capo carismatico di una lotta che è durata ventiquattro anni.
Immaginate che effetto fa trovarsi di fronte a Xanana Gusmão, comandante del FALIN-TIL (Fronte armato di liberazione di Timor Est), sedici anni di guerriglia nella giungla e otto di carcere duro nelle prigioni indonesiane, prossimo presidente della Repubblica. Forse comprenderete (ma chissà se perdonerete) come, di fronte a una certa domanda, questo giornalista sia rimasto come uno stoccafisso.
Ecco come sono andate le cose. È notte fonda, ma nel bunker senza finestre dell’ambasciata britannica la luce non cambia mai: è sempre quella senz’anima dei neon incassati nel soffitto. Xanana Gusmão si accende un’altra sigaretta, mentendo spudoratamente a se stesso: «Ok, questa è l’ultima e poi a letto». Si allunga su una poltrona, mette i piedi sul tavolino, tira una lunga boccata e fa un sorriso stanco. Non indossa più la mimetica del guerrigliero, e neppure il camisaccio di cotone grezzo del carcerato: solo un paio di jeans e una camicia azzurra. È minuto, intenso, gli occhi neri e mobili alternano momenti di riflessione profonda a lampi d’allegria. Quando si appassiona parla con tutto il corpo, spalanca gli occhi, li alza al soffitto, ti scruta, ammicca, allarga le braccia, alza le spalle, inclina la testa, ti avvolge con un sorriso caldo e contagioso.
Ha un viso mobile, estremamente espressivo, terribilmente pieno di charme: inevitabilmente latino. Nonostante ventiquattro anni tra guerra e galera non ha nulla della durezza del militare, specialmente dei generali indonesiani dello stampo di Wiranto, il massacratore di Timor. Sorprende, invece, la mitezza venata di humor, la dolcezza appassionata di un uomo la cui inclinazione sarebbe quella di sognare poesie e coltivare emozioni, senza nessuna vocazione a essere un eroe. Un uomo che invece il destino ha costretto, suo malgrado, a condurre un popolo attraverso l’inferno.
Il rifugio di Xanana somiglia in tutto a una prigione: pareti grigie, un cucinino, un bagno e uno stanzone arredato in modo spartano. Un divano, tre poltrone, un tavolo per pranzi e riunioni, un televisore perennemente sintonizzato sulla CNN, un computer portatile poggiato sulla moquette blu, due brandine su cui si alternano le quattro guardie del corpo. Unica concessione alla privacy, un paravento di plastica grigia che ripara in parte la branda dove il futuro presidente della Repubblica di Timor Est dorme non più di quattro ore per notte.
In un angolo, una vetrinetta con un’incongrua collezione di porcellane Wedgwood ci ricorda che siamo pur sempre in territorio britannico: non a caso la sicurezza è affidata agli s.a.s. della Raf, giovanottoni bruschi di poche parole, coi capelli corti e camicie bianche tipicamente inglesi che coprono a fatica toraci vasti come portaerei.
Ho avuto la rara fortuna di vivere in diretta, a fianco di Gusmão e dei suoi collaboratori più stretti, un’altalena di emozioni che avrebbe spaccato il cuore a un bue: l’esultanza per la vittoria nel referendum, la tensione per le prime notizie dei massacri, la disperazione nel vedere Dili in fiamme, la proclamazione della legge marziale, l’orrore per il genocidio, il senso di sconfitta quando tutto sembrava perduto. Ma, alla fine, la pressione internazionale dei media, dell’economia e della politica ha costretto gli indonesiani a cambiare radicalmente atteggiamento.
L’Onu ha dichiarato che invierà un contingente armato e finalmente la situazione pare migliorata. Torna perfino la voglia di scherzare: «Xanana, non hanno fatto in tempo a liberarti che ti hanno subito ricacciato in galera…». «Beh, speriamo che questa sia l’ultima no? E in fondo dormire in territorio britannico è molto meglio che dormire a Cipinang». (Cipinang è la prigione dove ha passato gli anni più neri, un posto indegno di qualsiasi società civile)
«Hai notizie dei tuoi guerriglieri?».
«Poche, naturalmente gli indonesiani stanno disturbando le comunicazioni radio. Taur Matan Ruak dovrebbe essere nascosto sulle montagne, Alejandro è abbastanza al sicuro… mah… certo non è un momento facile». Tira un lungo sospiro. «Si sa niente di Ronaldo?».
Ronaldo… Ronaldo… cerco disperatamente di ricordare se nel dossier che mi ha dato Alizée, la sua addetta stampa, ci sia un comandante timorese con questo nome. Prendo tempo. «Beh, Ronaldo… uh…».
«Pare che abbia dei problemi ai muscoli», continua il leader guerrigliero. «Chissà se giocherà contro il Parma, domenica. Almeno speriamo che Lippi metta in campo Baggio».
Sono senza parole. Mettetevi nei miei panni. Siamo in un bunker sorvegliato da soldati armati fino ai denti, quest’uomo è il capo di una piccola nazione che un gigante come l’Indonesia sta cercando di cancellare dalla faccia della terra, è reduce da dieci riunioni con delegazioni dell’Onu, ambasciatori, comandanti militari e trova il tempo di informarsi su una squadra che gioca a diecimila chilometri di distanza?
Xanana Gusmão è fatto così. Sprizza carisma da tutti i pori, con quella modestia, quell’ironia e quella nonchalance che appartiene ai leader naturali. Forse era così Garibaldi, certo è così il Subcomandante Marcos, che lotta per la sopravvivenza dei Maya nel Chiapas. Gioca su diversi livelli, è molto abile, è capace di essere ridanciano e appassionato, retorico o molto secco, coinvolgente o minaccioso. Si fa amare a prima vista.
In teoria dovrei fargli, per Repubblica, un’intervista molto tecnica e molto politica, molto formale. Non ci riusciamo, né io né lui, debordiamo immediatamente sul privato. Più che un’intervista diventa una chiacchierata tra due persone, più che un confronto un incontro umano. Dopo le prime questioni generiche l’interesse per l’uomo prevale sull’interesse per il politico, e gli rifilo due o tre domande veramente toste. Come stanno oggi i suoi figli? Con che cuore li ha abbandonati da piccolini? E com’è il sesso, lassù in montagna, tra la giungla e la malaria?
Due giorni fa gli hanno ucciso la mamma e il papà: cos’ha da dire? Lui non si nega, mi risponde, si scava dentro, si apre, si confessa. Riesce a comunicarmi il suo dolore di uomo e il suo amore per la libertà. «Io so che quando mio padre è morto, è morto felice perché aveva potuto scegliere il destino della Patria». Dice proprio così, dice Patria con la P maiuscola. Una parola che da noi ha perso significato. E capisco che, per lui che non ne ha mai avuta una, e che per costruirla si è sparato ventiquattro anni tra guerriglia e prigione, questa parola è una conquista, un sigillo, un Santo Graal.
Quando finisce la conversazione non c’è più niente da fare: sono conquistato anima e corpo alla causa di Timor Est, questo piccolo Davide che sta lottando con le unghie contro Golia; questo paese di meno di un milione di abitanti che ha subito ventiquattro anni di occupazione brutale da parte dell’esercito indonesiano, il quarto del mondo; un’annessione che l’Onu non ha mai riconosciuto, ma che per debolezza ha lasciato durare ventiquattro lunghi anni. Ci è voluto un massacro esecrato da tutto il mondo – e soprattutto avvenuto sotto gli occhi dei media – per far risolvere le Nazioni Unite a intervenire con la forza.
La conversazione potrebbe andare avanti tutta la notte, ma alle porte preme una delegazione Onu che deve decidere sui lanci di viveri ai profughi rifugiati sulle montagne. Xanana mi accompagna alla porta del bunker, mi stringe la mano con uno dei suoi sorrisi contagiosi e, strizzandomi l’occhio mi congeda con un’ultima battuta: «Mi raccomando, scrivilo: la prima cosa che cercherò di realizzare quando Timor Est allaccerà rapporti ufficiali con l’Italia sarà una partita contro l’Inter. Diglielo a Moratti».
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