È uscito in questi giorni l’ultimo numero (Autunno 2018 / n.10) de L’Almanacco de La Terra Trema, trimestrale autofinanziato, pubblicato dal 2015. Pubblichiamo a seguire un articolo estratto dalla rivista, disponibile in questi punti di distribuzione e nel corso de La Terra Trema – Fiera Feroce di vini, cibi e cultura materiale, che si svolgerà allo spazio pubblico autogestito Leoncavallo tra il 30 novembre e il 2 dicembre prossimo.
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“Noi non curiamo Xylella, il batterio non è affar nostro.
Noi curiamo la pianta con le buone prassi agro-colturali,
le stesse che i nostri avi hanno praticato per millenni”.
Associazione Spazi Popolari – Sannicola (LE)
Salento, estate 2018. Ogni tanto qualcuno mi chiede con una certa preoccupazione, «Ma come stanno i vostri ulivi?». Mi piace rispondere che «sono tutti malati, ma sembra che non siano mai stati così bene».
In realtà non so ancora se la spunteremo contro il Complesso del Disseccamento Rapido dell’Olivo (CoDiRO) che sta bruciando gli uliveti dal Capo di Leuca alle province di Taranto e Brindisi. Ma almeno tentiamo di affrontarlo, combattendolo con calce, letame e bordolese. Come facevano gli anziani trattiamo i tronchi col solfato di ferro, che allontana funghi, batteri e insetti. Controlliamo le chiome cercando i sintomi della malattia, e periodicamente potiamo i rami che seccano tagliandoli alla base, senza recidere quelli grossi o portanti. Bisogna disinfettare bene gli attrezzi con l’amuchina nel passaggio da una pianta all’altra, e poi disinfettare i tagli e chiuderli con una miscela di solfato di rame, calce e vinavil. Trattare le ferite dell’albero come quelle di una persona. È importante, perché dalle ferite entrano i patogeni, e qui siamo nel bel mezzo di un’epidemia. Sappiamo che non dobbiamo arare vicino agli ulivi, per non recidere le radici superficiali esponendole alle infezioni fungine. E, soprattutto, che dobbiamo nutrire le piante se vogliamo che reagiscano alla malattia, e quindi dobbiamo nutrire la terra. Questo significa ricostituire la componente organica dei terreni insteriliti da decenni di chimica: spargere il letame, lasciare sul suolo l’erba tranciata, seminare fave e lupini per il sovescio. C’è chi poi aggiunge microrganismi efficienti, autoprodotti con ingredienti semplici e alla portata di tutti, e chi utilizza consorzi microbici complessi sviluppati in laboratorio. In generale, i prodotti commerciali sono ridotti al minimo. I risultati si vedono. Sono verdi e rigogliosi i nostri ulivi malati, accanto a quelli scheletriti dei vicini.
È bene chiarire alcune questioni sulla cura e sulla guarigione. I nostri alberi non sono guariti dal CoDiRO. Ci convivono. Nonostante la malattia ci regalano fronde lucide e scure, e un olio piccante che profuma di erba. Curarli non significa somministrargli una medicina e nemmeno applicargli una tecnica colturale. Curarli vuol dire “averne cura”, tentare costantemente di capire di cosa hanno bisogno. Decidere se ciò che ci lega a loro è un mero rapporto di produzione o una relazione tra esseri viventi.
All’inizio, quando le prime cime cominciarono a seccare, non sapevamo come muoverci. Se i nostri ulivi oggi possono ancora esprimere tanta bellezza, dobbiamo ringraziare Spazi Popolari, una rete di contadini che ci ha trasmesso i suoi saperi e l’esperienza. Si tratta di gente caparbia e controcorrente che da anni sperimenta a livello empirico i metodi di cura. Contadini che hanno dovuto scoprire da soli quali tecniche potevano funzionare e quali no, imparando dagli errori le pratiche da evitare, osservando, ragionando e confrontandosi. Lo hanno fatto sotto un costante e pesantissimo attacco mediatico, politico e accademico, perché non si sono mai rassegnati alla “ineluttabilità” degli espianti e dei pesticidi, che sono le uniche risposte che lo Stato, la scienza (tranne poche lodevoli eccezioni) e l’Unione Europea hanno saputo darci davanti all’estendersi dell’epidemia.
Da quando, nel 2013, il batterio Xylella Fastidiosa – classificato dall’European and mediterranean plant protection organization come organismo patogeno da quarantena – è stato rilevato nelle campagne salentine, abbiamo assistito a un susseguirsi di norme (comunitarie, nazionali e regionali) finalizzate in maniera univoca all’abbattimento degli ulivi su un’ampia fascia di territorio, senza alcun rispetto neanche per quelli millenari.
Al batterio e al suo insetto vettore, il Philaenus spumarius,è stata attribuita l’intera responsabilità del disseccamento, chiudendo bruscamente il ricco dibattito scientifico che si era aperto sull’origine del fenomeno. Un dibattito che ne identificava le cause in una serie di patogeni in connessione fra loro, in un contesto generale di abbassamento delle difese immunitarie delle piante, degrado dei terreni e inquinamento da pesticidi. Proprio per esprimere tale complessità la malattia venne chiamata Complesso del disseccamento rapido dell’olivo. Nel dibattito interveniva Pietro Perrino, già direttore dell’Istituto del Germoplasma del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) di Bari, che poneva in correlazione il largo uso del glifosato, utilizzato per decenni per diserbare gli uliveti, con la maggiore vulnerabilità delle piante, l’impoverimento dei suoli, la distruzione dell’equilibrio microbiologico, la virulenza delle infezioni fungine. Cristos Xiloyannis, docente dell’Università della Basilicata, metteva al centro del problema la distruzione dello strato organico dei terreni, dopo decenni di gestione chimica. Le analisi sugli ulivi mostravano l’esistenza di più microrganismi capaci di causare disseccamento impedendo la circolazione della linfa, come funghi lignicoli dei generi Phaeoacremoniume Phaemoniella. All’interno dei tronchi venivano ritrovati di frequente i canali scavati dalle larve del rodilegno, che aprono la strada alle infezioni fungine. Non c’era dunque solo la Xylella Fastidiosa,e comunque non se ne riscontrava la presenza in tutte le piante sintomatiche. Spulciando i dati dei monitoraggi regionali, si può ancor oggi verificare come centinaia di ulivi presentassero i segni della malattia pur risultando negativi alle analisi sulla presenza del batterio.
Eppure, contravvenendo al primo postulato di Koch secondo il quale “il presunto agente responsabile della malattia in esame deve essere presente in tutti i casi riscontrati di quella malattia”, la presenza di XylellaFastidiosa venne posta, con una evidente forzatura, al centro della narrazione ufficiale sulle origini dell’epidemia. Una convergenza di interessi variegati premeva in questa direzione, con argomentazioni molto più concrete del postulato di Koch. Perché un batterio da quarantena bandito da una Direttiva Ue è capace di attirare milioni di finanziamenti europei per la ricerca accademica, e altrettanti per sostenere la sostituzione varietale delle cultivar di olivo tradizionali con altre presentate come resistenti alla Xylella. Varietà casualmente adatte anche all’utilizzo per colture superintensive.
Questo tipo di “modernizzazione” dell’olivicoltura è un vecchio sogno di un ambito composito di docenti e ricercatori della facoltà di Agraria, del Cnr e dell’Istituto agronomico mediterraneo di Bari, sogno condiviso anche da associazioni dell’imprenditoria agricola e dai loro rappresentanti politici bipartisan. Una convergenza di interessi che ha sempre considerato come un ostacolo la presenza degli ulivi tradizionali, e che non ha esattamente fra i propri obiettivi la loro salvezza.
Facile pensare che questa variegata schiera si sia trovata in piena sintonia con le disposizioni – europee e nazionali – che nel 2015 provarono a imporre l’eradicazione di tutti gli ulivi (sani o malati che fossero) entro cento metri di distanza da ogni pianta ritenuta positiva al batterio. La misura, da attuarsi nella “zona cuscinetto” ai confini della zona infetta, consisteva nella creazione di un deserto di 3,14 ettari attorno ad ogni singolo albero risultato positivo alle analisi. Una scelta devastante e inutile, dato che i precedenti tentativi di eradicare la Xylellacon questo sistema erano sempre risultati fallimentari: “Una profonda revisione della letteratura non ha prodotto alcuna indicazione che l’eradicazione sia una scelta valida una volta che il patogeno si è stabilito in una zona. Precedenti tentativi, a Taiwan e in Brasile, non hanno avuto successo” (EFSA Journal 2015;13(1):3989).
Al deserto degli espianti doveva accompagnarsi il deserto chimico perché, per sterminare l’insetto vettore, venivano disposte irrorazioni massive di insetticidi. Si prevedeva l’attuazione di un vasto avvelenamento del territorio tramite sostanze neonicotinoidi, neurotossiche, interferenti endocrini. Sostanze capaci di ledere l’intero ecosistema delle campagne salentine, colpendo le api e gli insetti impollinatori, gli uccelli selvatici, i rettili, gli anfibi, gli invertebrati dei suoli, i mammiferi dei campi. Umani compresi, a partire da chi la campagna la vive e la lavora.
Paradossalmente i contadini, che per primi avevano segnalato i disseccamenti e chiesto aiuto alle istituzioni, si trovarono a dover affrontare non solo il CoDiRO, ma anche gli espianti dei propri uliveti imposti con l’arroganza della forza pubblica, e multe salate quando disobbedivano all’ordine di estirpare e avvelenare. A Torchiarolo si ribellarono. Nell’autunno 2015 fu rivolta popolare, con l’intero paese mobilitato per impedire il passaggio delle ruspe e per sorvegliare gli uliveti giorno e notte. Scesero in piazza con i trattori, bloccarono le strade, risollevarono gli ulivi sradicati. Il resto del Salento li cinse con un abbraccio solidale, riempendo di gente le campagne aggredite, i cortei nei capoluoghi e i binari della linea adriatica, fino a quando gli espianti non vennero fermati dalla Procura di Lecce.
A tre anni di distanza la storia si ripete un po’ più a nord. La fascia degli espianti si è estesa a sud di Bari,ed è lì che si organizza una nuova resistenza. Il decreto del ministero delle politiche agricole e forestali del 13 febbraio 2018, ultimo dono avvelenato della gestione di Maurizio Martina, ribadisce la formula “espianti e pesticidi”, e nessuno lo ha ancora abrogato. Noi continuiamo a disobbedire agli ordini e ad accudire le nostre piante, perché una malattia con cui si riesce a convivere non fa più così paura. (alexik)
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