Prendete una terra isolata, arretrata e sconosciuta. Condite con una buona dose di criminalità, violenza e mancanza di prospettive di futuro. Miscelate e lasciate riposare paesi trascurati e fatiscenti, di briganti e di emigranti. Nel frattempo, dedicatevi alla preparazione del miracolo: questo impasto emarginato, povero e oppresso dalla delinquenza sta per trasformarsi in una meta turistica di portata mondiale. Per ottenerlo, frullate insieme dialetto locale e reggae, aggiungete una musica arcaica dai ritmi travolgenti e decorate con un pizzico di tradizione e un ballo inventato ma seducente. Amalgamate il composto con l’aiuto di intellettuali visionari e amministratori strateghi. Attendete una ventina d’anni e quella landa disgraziata diventa una terra di tendenza, di borghi da cartolina, meta di folle di turisti attratti dal mix mediterraneo di mare, bel vivere, enogastronomia di qualità.
È pronto da gustare il brand Salento, uno dei casi più studiati al mondo di promozione e marketing territoriale dal basso. Una ricetta facile e veloce dal tocco esotico, che non richiede riflessione né impegno quindi perfetta per l’estate. Postate la foto del vostro piatto con l’hashtag #weareinPuglia e avrete invidia e ammirazione garantite.
Suonerebbe più o meno così in cucina il libro Educazione salentina di Federico Mello, uscito a maggio per la casa editrice leccese Kurumuny. Un inventario romanzato di fatti dagli anni Ottanta ai primi Duemila in una ventina di brevi capitoli, con le voci dei protagonisti e dei testimoni del glorioso rinascimento del Salento. Mello intende raccontare il cambiamento radicale che ha investito il tacco d’Italia, tagliato fuori dalle traiettorie di sviluppo economico e sociale del resto della penisola. La fatica, la fame e lo sfruttamento nelle campagne, l’abbandono delle terre negli anni Sessanta e la massiccia emigrazione verso città industrializzate del nord, verso Svizzera, Germania, Belgio (con condizioni di vita altrettanto umilianti, con decine di minatori salentini morti nella miniera belga di Marcinelle e quelli tornati a casa con la silicosi). Gli anni del contrabbando e della Sacra Corona Unita, della smemoratezza collettiva e dell’incuria. Ma finalmente il reggae, le dance hall e i rave col passaparola sulla spiaggia o nelle masserie abbandonate. Musica dalla Giamaica nelle casse del sound system, dialetto salentino nei microfoni, con messaggi di riscatto, contro l’eroina e la mafia. E poi l’operazione Primavera, il recupero dei canti della tradizione e l’esplosione della Notte della taranta. Così risorge l’identità meridionale per Mello e gli artefici sono “amministratori con a cuore il loro territorio che hanno cercato e trovato nuovi modi per valorizzarlo; artisti che hanno proposto racconti nuovi per connettere cultura e identità; poeti e intellettuali capaci di indicare nuovi orizzonti da perseguire; cittadini stufi di rimanere con le mani in mano, giovani che hanno avuto il coraggio di investire su se stessi e sulla loro terra”.
INDIE DI QUAGGIÙ
Per l’autore di Educazione salentina, il brand Salento altro non è che il sud auspicato da Il pensiero meridiano di Franco Cassano, libro memorabile uscito nel 1996 e definito da Sergio Blasi, sindaco tra i più impegnati organizzatori della Notte della taranta, un “manuale per gli assessori alla cultura”. Cassano teorizzava un sud che non fosse una forma incompiuta di nord, in cui le differenze culturali non venissero trasformate in ritardo e scarto temporale, in un inseguimento eternamente fallimentare. Pensare meridiano è “restituire al sud l’antica dignità di soggetto del pensiero, interrompere una lunga sequenza in cui esso è stato pensato solo da altri”. Infatti, Mello insiste, strumentalizzando Carmelo Bene: “A questo sud azzoppato non resta che volare, dunque. […] Un Salento in grado di pensarsi da solo, con le sue caratteristiche peculiari, la sua storia, la sua geografia, le sue influenze mediterranee, la sua luce, la sua natura, la sua pietra ‘morsicata’, i suoi santi. […] Gli storici punti deboli della penisola salentina – l’isolamento, l’arretratezza, la lontananza dai processi industriali – man mano si stanno trasformando in punti di forza. A guardarlo con occhi nuovi, il Salento sta diventando un territorio che ha saputo prendere in mano la sua unicità e metterla al passo con i tempi”.
Eppure, tutto intorno suggerisce che siamo ancora terra subalterna in vetrina, luogo di villeggiatura dei nord del mondo, buen retiro per stranieri facoltosi, con manifatture di tabacco convertite in resort di lusso, con gli svizzeri che credono di poter avere tutto solo pagando e i gestori di lidi e alberghi che aspettano i turisti come fossero portafogli con le gambe. L’alterità del sud normalizzata e omologata agli standard del nord: masserie e trulli con riscaldamento a pavimento, riadattati alle esigenze del vivere moderno con acqua, fogna, elettricità. I flussi turistici (e quindi finanziari) aumentano quanto più il sud baratta la verità per la presunta sicurezza economica, l’originarietà per il denaro. I meridionali arretrati e incolti sono divenuti affabili (e malleabili) uomini di mondo che rendono piacevole il soggiorno ad altri uomini di mondo apparecchiando il mondo come lo cercano, verniciato di tipicità. Camerieri, ristoratori, affittacamere, negozianti sono persone che, anche se non gliene importa più, devono continuamente vendere e vendersi per sopravvivere, manodopera precaria che non ha null’altro da esprimere se non sorrisi e assensi.
Dov’è il pensiero meridiano a Otranto, dove si cammina compressi tra botteghe di souvenir, impregnati degli odori delle cucine dei mille locali? Dove l’unica libreria e storico negozio di dischi in un vico che raccoglieva musicisti e viandanti ora è rimpiazzata da un ristorante gourmet di pesce che ha monopolizzato tutta la strada, e anche la piazzetta dove la libreria si è poi trasferita è invasa dai tavolini di un altro fish bar (perfino durante la presentazione di un libro qualcuno sbaglia porta ed entra a chiedere quanto c’è da aspettare per un panino col polpo). Sempre Blasi racconta a Mello come il Salento sia scampato all’industrializzazione forzata che ha rovinato Taranto e Brindisi e abbia potuto mantenere intatto il patrimonio paesaggistico, storico e monumentale. Così, la riqualificazione in chiave turistica dei centri storici “è stata possibile perché noi avevamo una cosa che gli altri non avevano: abbiamo giocato sulla storia”. Giocando, si finanziano botteghe artigiane per le vie dei centri storici dove prima non esistevano, si partecipa a fiere del settore turistico, un accordo con la Rai prevede approfondimenti sul Salento per farne conoscere le bellezze, un accordo con le ferrovie offre pacchetti per weekend salentini. Se non possiamo essere nord, almeno facciamo di tutto per piacergli.
Dimostrazione del fatto che l’identità salentina è solo involucro senza sostanza sono le nuove generazioni, facili prede del complesso di inferiorità nei confronti della cultura dominante (in matematica, la funzione identità è anche la più inutile di tutte, perché non dà nessuna informazione e manda ogni elemento in se stesso). I ragazzi si vantano di studiare e vivere fuori, a Milano, a Bologna, a Londra (“tanto ormai il pasticciotto e il caffè salentino li trovi ovunque”). Tornano l’estate e imitano i turisti negli abiti, nel linguaggio, nei consumi. Pur di confondersi con gli stranieri tengono un tenore di vita oltre i propri mezzi, scattano foto a scorci dei paesi dove sono cresciuti come fossero angoli esotici e fingono stupore (sarebbe questo il “ri-guardare i luoghi” di Cassano, la meraviglia mordi e fuggi?) per mostrare agli amici nordici che sono in Salento, a fare la vita lenta in Baia verde a Gallipoli. Viviamo il rurale come mancanza dell’urbano, non come potenzialità del rurale. Gli unici luoghi che conosciamo li dimentichiamo per attraversarli e consumarli da estranei, perenni esuli in questa terra del rimosso.
Nel passare dal pensiero all’azione meridiana il contenuto critico è stato neutralizzato. Origini, identità, tradizioni sono etichette funzionali a “un’ideologia che nasconde la verità dei processi, i graffi e le storture dolorose della storia per occultarne i meccanismi, è tutta interna al potere e si sviluppa come forma di dominio”, scrive Antonio Bove. Incorporare gli stereotipi identitari, scambiare l’appartenenza passiva per un valore aggiunto, dire “la taranta ce l’ho nel sangue”, aggrapparsi alle “radici ca tieni”: queste sono retoriche mosse da precise strategie che fanno accettare ai deboli i loro oppressori. Con il nome di “cultura” interiorizziamo metafore prodotte dal potere illudendoci che tale appropriazione ci renda più forti, invece stiamo solo facendo il loro gioco. Siamo proiettati in nuove e più sottili forme di subalternità, poiché i miti delle origini corrispondono alla stessa strategia politica del colonialismo. Non si tratta di capovolgere gli stereotipi negativi e assumerli come tratti di una identità da restaurare: l’assenteismo lavorativo in dolce far niente, l’oppressione del patriarcato in protezione della comunità, le piccole illegalità nell’arte di arrangiarsi, la subordinazione e la passività in fatalismo. No. Il pensiero meridiano non costituisce una giusta risposta critica, come vorrebbe essere, alle strategie dei poteri egemoni: la stereotipizzazione delle pratiche non si combatte con la pratica degli stereotipi.
MARC(H)IO SALENTO
Scrive Mello nell’introduzione: “Quando mi chiedono di dove sono e non posso che rispondere ‘di Lecce’, le persone mi guardano con un’espressione beata, come se si trovassero davanti a un uomo baciato dalla grazia, proveniente da un posto magico”. Nel 2010 Lecce è nella top ten delle città da visitare secondo Lonely Planet. Nella guida turistica Best in travel si legge “il bello di questa città, oltre che nelle opere d’arte, lo trovi nel clima, nell’aria che si respira, nella distesa, accogliente e pacata joie de vivre dei suoi abitanti”. Anche un reportage del New York Times del 2022 apriva con “c’è qualcosa nell’aria del Salento”, e suggeriva “questo è forse il principale ingrediente del Salento in transizione: gioia in svariate forme”.
Incanta questo Salento che rinasce dalle ceneri della criminalità, della povertà, dell’abusivismo, dell’emigrazione. Ma siamo sicuri che siano tutte ceneri? Chissà perché se si sta così bene i ragazzi scappano dopo il diploma e sul Quotidiano di Lecce un titolo recita “addio alla Puglia per 22 mila: pochi servizi e salari bassi”. Un altro titolo esordisce con “cercasi personale disperatamente, mancano più di 20 mila addetti”. Fa eco una canzone di Otello Profazio, “ma che bisogno c’è di lavorare cu stu cielu, sta luna e cu stu mare, qua si campa d’aria”. Quegli amministratori illuminati hanno investito unicamente sul turismo, ma il tessuto sociale non è evoluto con la stessa velocità della sua narrazione. Così, i giovani non trovano una terra per vivere, vanno via se i posti di lavoro in lidi, alberghi e ristoranti riservano condizioni irregolari, paghe misere, riposi settimanali e ferie inesistenti. Intorno, una saturazione di feste e sagre, privatizzazione di spazi pubblici nelle piazze, devastazione delle coste, invivibilità dei centri storici, dilagare dell’edilizia incontrollata, vita quotidiana a prezzi assurdi. Scriveva Zygmunt Bauman “oggi accade […] che alcuni possano uscire dalla località – da qualsiasi località – mentre altri guardano invece disperati al fatto che l’unica località che gli appartiene e abitano gli sta sparendo da sotto i piedi”.
Mello canta la fine della Sacra Corona Unita, ma tutti sanno che si è semplicemente “ripulita”, non contano il numero di omicidi o di centri storici non percorribili per attestare la sua buona salute (i quotidiani locali riservano un pezzo al giorno su attentati incendiari notturni a furgoni, auto di sindaci e amministratori, aree di servizio, capannoni abusivi). Il tutto in una regione dove gli incendi e i terreni deserti sono più diffusi degli ospedali, dove gli uliveti secolari devono fare spazio all’agricoltura superintensiva e ai mega-parchi eolici e fotovoltaici, dove si concentrano numeri anomali di impianti per il trattamento di rifiuti speciali e pericolosi in una zona che da anni ha il più alto tasso di tumori rispetto ai dintorni. La Fiat Panda 30 sulla copertina del libro è una fotografia di Gabriele Albergo da un progetto il cui nome darebbe il titolo alla vera storia da raccontare, che Mello sembra non vedere: Salento valle della morte.
Al fondo c’è una sola dura feroce notizia: “Voi non siete dove accade quel che decide del vostro destino. Voi non avete destino. Voi non avete e non siete. In cambio della realtà v’è stata data un’apparenza perfetta, una vita ben imitata. Così ben distratti dalla vostra morte da godere di una sorta di immortalità” (Franco Fortini). (chiara romano)
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