Napoli, 12 novembre, ore 18, via San Vincenzo. Piccola folla in attesa della presentazione di La paranza dei bambini al Nuovo Teatro Sanità, al termine della giornata trascorsa dall’autore, Roberto Saviano, nel quartiere, in compagnia dell’organizzatore del teatro, il regista Mario Gelardi, e dei giovani che animano la sua compagnia. Clima ventoso, quasi invernale. Folla destinata a rimanere quasi interamente fuori, considerando i soli cento posti a sedere di cui è dotata la struttura. Un maxischermo e due casse sono piazzate all’ingresso del teatro, per permettere alle persone che non riusciranno a trovare posto di partecipare. Si segnalano: l’affissione sul ponte della Sanità di uno striscione polemico con lo stesso Saviano, accusato da alcuni neo-meridionalisti di infangare la città; i dieci “fiocchi di neve” della pasticceria Poppella mangiati dallo scrittore, come segnalato dal titolare dell’attività, Ciro, inventore del suddetto dolcino a base di latte e panna raccolta in un morbido e fondente impasto.
Interno sala, ore 18,20: gli spettatori prendono posto. Sul palco ci sono due sedie vuote e un cartonato con il volto dello scrittore, recitante uno slogan guerresco. Una voce al microfono invita i più mondani, occupati a salutarsi ripetutamente tra loro, ad accomodarsi, mentre i poliziotti perquisiscono e passano al metal detector i ritardatari.
Contemporaneamente, qualcuno fuori si lamenta: «Sono entrati solo politici e giornalisti! È una vergogna!». In effetti, come prevedibile, una metà della sala è occupata da spettatori “a invito”. Gli altri, sono quelli arrivati prima («Alle tre!», sostiene qualcuno). Intanto si scaldano gli animi. Titolare della bottega “Vendo mobili usati” contro signore con borsalino, foulard e sigaro. «È una macchina per fare soldi», fa il primo. «Ancora si deve fare il processo e già ha scritto il libro, che bella cervella!». «Lo potremmo scrivere meglio noi», sostiene un terzo. «Noi almeno siamo di qua, le cose le conosciamo. Lui dice le bugie». «Ma quando mai, quali bugie!» (signore distinto). «Anzi, vuole sottolineare il potenziale di creatività e positività. Perché in fondo ‘e creature so’ creature, e sono buone se indirizzate verso il bene». «Ma allora con tutti questi milioni di euro perché non apre una fabbrica e mette a lavorare ‘e guagliune?». «Perché ‘o scrittore adda fa’ ‘o scrittore! Come il sindaco deve fare il sindaco e non il magistrato. Ognuno deve fare il suo… quello poi è minacciato!». Corale: «Ma chi ‘o ‘ccire! Guarda quanta gente sta qua!». Chiosa malinconica del rigattiere: «Io tengo il negozio qua… m’avesse fatto fa’ n’euro!». Saviano ammonisce dal videowall: «Le nuove generazioni vogliono fare soldi subito!».
Saviano e Gelardi hanno preso posto sulle due sedie vuote. Alle loro spalle i giovani della compagnia, che sta lavorando alla trasposizione teatrale del romanzo. Si comincia con i ringraziamenti, ma Roberto è caldo, e parte subito in quarta. Gelardi prova ad arginarlo. «Sto correndo troppo? Mi devo fermare?», suggerisce sorridendo lo scrittore. Il regista risponde al sorriso ma non ha il coraggio di ribattere. È un sì. Prima di iniziare l’incontro-intervista bisogna invitare sul palco il pm Woodcock, titolare dell’inchiesta che Saviano ha studiato per il suo romanzo. Woodcock ruba ai protagonisti solo un paio di minuti e si allontana avvolto nel suo giaccone verde cactus. Applausi della platea, più o meno equamente divisa: nelle file davanti, gli invitati; nella seconda metà della sala, gli entrati con la fila. Si distinguono facilmente dal colore dei capelli: bianchi, grigi, radi o assenti per i primi; biondi, folti, colorati, vivi, per i secondi. Sulle ali, decine di giornalisti, armati di macchine fotografiche e diavolerie tecnologiche. Il numero di spettatori non raggiunge la metà di quello dei poliziotti presenti. Esterno! Esterno!
Dall’esterno ti segnalo le manovre dei più furbi che si accalcano sulle rampe della Chiesa dell’Immacolata e San Vincenzo per scrutare il videowall. Woodcock cita Hugo: «Meno carceri e più scuole». Una giovane madre sbuffa: «Andiamo jà, Ugo! Je me so’ scucciata!». Esposto uno striscione contro la chiusura dell’ospedale San Gennaro.
Riprendiamo la linea dal teatro, quando uno dei ragazzi ha appena terminato di leggere l’incipit del romanzo. Saviano vorrebbe gestire il gioco, parlare senza interruzioni, naturalmente con le pause opportune, ma le domande di Gelardi gli spezzano il ritmo. In fase non collegata si segnalano un paio di sviolinate del padrone di casa, accolte dagli applausi dal pubblico. Una volta inquadrato il tema del libro, si analizzano le questioni più generali: la perdita dell’innocenza, l’assenza di prospettive, la speranza, la vita e la morte nei quartieri popolari.
Perdonami, intervengo solo per dirti che è stata appena determinata con esattezza la misura della speranza di cui parla Saviano. Una signora dai capelli rossi è uscita dalla fila (rinunciando al “firmacopie”) e parlando con i poliziotti ha decretato: «Bastano dieci individui all’anno che cambiano per far cambiare pian piano il quartiere…». A te.
Sul palco siamo nella fase centrale della presentazione. Si parla di idoli e modelli dei giovani delle paranze. L’impressione è di aver già sentito tutto, cambiano solo i nomi, e il Tony Montana dei tempi di Gomorra è diventato oggi Dan Bilzerian. Un carabiniere in alta uniforme prende posto in piedi vicino alla nicchia che ci siamo ritagliati a fondo sala, chattando con il suo tenente colonnello e rassicurandolo che tutto procede per il meglio.
Dalla scalinata ti segnalo, con rammarico, l’arrivo di Constantin, sassofonista rumeno. Attenzione, ecco che scruta la folla, cerca un cenno di intesa… no, non suona, per non disturbare; solo due note per far girare tutti, poi sorride. Linea che torna al campo centrale.
In scena entrano tre dei ragazzi di Gelardi. Recitano un piccolo pezzo in cui interpretano giovani criminali affascinati dalla forza dei terroristi dell’Isis, a cui decidono di ispirarsi facendosi crescere la barba come una divisa. La storia ha un fondamento reale, ma il testo è caricato all’inverosimile e i tre vengono così vestiti da caratteristi o “attori brillanti”. La parola torna a Saviano, che prova a riportare il tutto su un tono più serio. Parla della brutalità delle paranze e dei giovani killer, mentre il pubblico, incantato, sgrana gli occhi sconvolto come se non avesse mai sentito parlare di cose che in realtà tutti conoscono. Più passano i minuti e più sembra che gli anni non siano passati. Ci si sofferma sui soprannomi, altro cavallo di battaglia dell’autore: Marajà, Tucano, Dragonball, Dentino, Pikachù. Ah, no. Quello era Gomorra… ma ci chiedono la linea in piazza!
Dalla strada non sembrano sortire effetto le parole di Saviano. «Je t’accir’ ‘mmiez’ ‘a via!», urla al telefono una signora probabilmente affiliata alla paranza delle milf. Si fa notare inoltre un uomo che alla domanda: «Che opinione ha di Saviano?», risponde: «Non chiederlo a me, per lo Stato song’ n’ex cammurrista!». Per gli approfondimenti ancora la linea al teatro.
Dal teatro siamo sulle battute finali. Dopo una breve parentesi sulla scelta del genere, con il passaggio dal romanzo non-fiction al romanzo e basta, la chiacchierata si sposta sull’inedito tema: Napoli, parlarne bene o parlarne male? Prima del fischio finale c’è spazio per la carrellata di citazioni illustri (Bruno, Salvemini, Roth) e di brevi aneddoti di incontri passati (Umberto Eco), oltre che per un altro paio di sviolinate reciproche da Gelardi a Saviano e da Saviano agli eroi della Sanità, dallo stesso Gelardi a padre Loffredo, passando per Zanotelli e così via.
Mancano venti minuti alle otto, lungo applauso: la prima parte dell’incontro finisce qui. Al termine dell’applauso Gelardi legge in tono perentorio le istruzioni per la partenza del firmacopie, intimando a tutti gli interessati a stringere la mano di Saviano e farsi autografare il libro, di sistemarsi a destra della platea e attendere con pazienza il proprio turno. Nel frattempo gli “invitati” si allontanano. Tra loro due assessori della giunta de Magistris, quello alla cultura Daniele e la sempre presente Clemente, un po’ in bilico nelle faide di cui sono stati protagonisti il suo sindaco-mentore e lo scrittore. Dopo una pipì (sì, ci va anche lui in bagno) e un sorso d’acqua, Saviano ritorna sul palco. Davanti a lui un tavolino di legno, una bottiglia di plastica, le luci puntate in faccia e un paio di centinaia di persone che aspettano la dedica del loro personaggio famoso preferito. (riccardo rosa e davide schiavon)
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