Passeggiando per la Bolognina si ha la sensazione che sia tutto un po’ sospeso. L’impressione è quella di essere in attesa di qualcosa, o di trovarsi di fronte a un incompiuto. Per chi arriva in treno a Bologna, e per chi non è di Bologna, questa sensazione è evidente a partire dalla nuova stazione dell’alta velocità, con la sua uscita che si chiama appunto “Quartiere Bolognina”, e che sembra presentarsi immediatamente al viaggiatore per il suo essere spoglia, incompleta, un ossimorico mix di novità e decadenza. Dalle piattaforme dei treni sotterranei si risale per un labirinto oscuro di scale mobili e spazi deserti, di vuoti che non sono stati riempiti dai negozi e dalle attività commerciali previsti nel progetto iniziale. Doveva essere una stazione moderna, futuristica, come quella di altre città: un’idea mai nata. O forse un’idea che semplicemente non c’era.
Usciti dalla stazione, e procedendo per via De’ Carracci per addentrarsi nel quartiere, si nota una piazza nuova di zecca, parte del corpo della struttura della stazione. Questa piazza è dedicata alle vittime della Shoah, e un monumento costituito da due parallelepipedi rettangolari in acciaio si staglia nel mezzo. La piazza di per sé è spoglia, alienata alla sua pur nobile funzione commemorativa e alle consuete celebrazioni istituzionali. È pensata come il resto della nuova stazione: senza un’idea, e una direzione oltre la ricorrenza. Tuttavia è possibile scorgere un altro elemento che sembra percorrere e caratterizzare un po’ tutta la Bolognina: quella piazza da qualcuno è vissuta, qualcuno un’idea l’ha avuta, qualcuno in quello spazio spoglio ha inventato qualcosa, senza proclami a mezzo stampa e investimenti faraonici. Sono ragazzi e ragazze giovani, del quartiere e della città, che hanno deciso di colmare quel vuoto con i loro skate, e che fino a tarda serata vivono quell’interstizio urbano tra acrobazie e la musica del ghettoblaster.
Senza continuare oltre la nostra passeggiata in Bolognina – ma piuttosto invitandovi a farla per davvero – stabiliamo qui alcune coordinate per capire di che tipo di quartiere stiamo parlando e del perché sia sempre al centro del dibattito pubblico e cittadino. Certo, potremmo liquidarlo come il classico quartiere dietro la stazione, di quelli descritti come degradati e abbandonati, un po’ periferia, un po’ ghetto, un po’ criminalità, un po’ immigrati. E con questo esauriamo il 99% della narrazione che potete trovare tranquillamente sui giornali locali. Ma ci chiediamo, appunto, di cosa parliamo quando parliamo di Bolognina? Qual è l’idea di quartiere – e di città – dell’amministrazione e delle forze politiche, sociali ed economiche in campo? E perché la Bolognina è così dibattuta e raccontata?
I fatti recenti ci aiutano solo in parte a comprendere la posta in gioco. Ovviamente ci riferiamo alla vicenda dell’annuncio da parte dell’amministrazione comunale dello sgombero a fine giugno dello storico spazio sociale XM24 che da quindici anni ha fatto rivivere una parte dello stabile dell’ex mercato ortofrutticolo di via Fioravanti. Inutile parlare dell’effetto che hanno avuto le dichiarazioni del sindaco Merola riguardanti l’intenzione di costruire una caserma sulle sue ceneri. Ci preme segnalare però che – per quanto l’ipotesi di una caserma sia stata poi bocciata – resta un alto valore simbolico dietro le parole del primo cittadino. Simbolico non solo per il carattere provocatorio che un annuncio di questo tipo suscita in relazione a un centro sociale, ma soprattutto per il messaggio che lancia al resto della città e del quartiere. Se la Bolognina è un luogo abbandonato, degradato, in mano alla criminalità, la soluzione è semplice: cacciamo i brutti, sporchi e cattivi, e riqualifichiamolo inserendo un “presidio di legalità”. Con tanto di benedizione da parte della destra cittadina e della Lega Nord.
D’altra parte questo scenario non appare poi tanto nuovo per questa amministrazione. Qualche mese fa, subito dopo le elezioni comunali ci interrogavamo su cosa stesse accadendo in città e nel quartiere. La Bolognina, neanche a farlo apposta, era stata al centro del dibattito elettorale. Non perché ci fosse uno scontro di idee sulle politiche da intraprendere – mai sia – quanto piuttosto per una situazione definita emergenziale, di sicurezza, tanto che per mesi il quartiere è stato presidiato dall’esercito dopo una serie di furti ai danni dei commercianti. Un dispiegamento di forze inutile se si pensa che il responsabile era un solo individuo allo sbando. Ma si sa, ai fini elettorali funziona di più sbattere il mostro in prima pagina, e quel mostro è la Bolognina. È il corpo malato della città. La cura è l’intervento securitario prima, quello di riqualificazione e rigenerazione poi.
La trama sembra seguire processi in atto anche in altre parti della città. Non deve sorprendere, allora, che la parola periferia sia il vocabolo più utilizzato da parte dell’amministrazione e dai riqualificatori urbani di professione, con tutto il suo carico di accezioni negative e stereotipate. Alcuni spazi della città vengono quindi immaginati e raccontati come periferia, luoghi indicati come bisognosi di interventi di “normalizzazione”. La Bolognina, in questo senso, è in buona compagnia di quartieri come il Pilastro, descritto come la Scampia bolognese e alle cui spalle sorgerà FiCO; e del quartiere Barca, che avrà l’onore di essere interessato dal vicino restyling dello stadio e dei Prati di Caprara.
Tutto ciò ci parla di un’idea di città che tende a disegnare dei confini netti e precisi, di zone in cui è necessario l’intervento salvifico dell’amministrazione e del mattone. Tuttavia, a ben guardare, sembra mancare totalmente un progetto politico di prospettiva, e quella sospensione e incompiutezza che vivono questi quartieri appare quasi voluta, in attesa che arrivi un investitore privato con qualche idea e il fiuto dell’affare a poco prezzo.
Ma attenzione, non vogliamo cadere nell’errore opposto glorificando un inesistente passato di purezza urbana, fatto di favolosi ghetti incontaminati, contrapposto a un futuro violato dall’ondata gentrificatrice. Tutti e tutte si meritano un luogo bello in cui crescere e vivere, indipendentemente dal proprio reddito, ma le trasformazioni urbane sono sempre il frutto di una scelta (anche quando ci si affida alla mano invisibile di smithiana memoria): si può decidere di allontanare il “degrado” a colpi di food e immobiliarismo o si può scegliere di farlo riprogettando i servizi, includendo le persone che vivono un territorio, rendendole partecipi del proprio presente, costruendo insieme strumenti di autodeterminazione, combattendo una logica assistenzialista, immaginando un nuovo welfare. E ancora, le parole sono importanti, cosa significa che questo o quell’intervento lo vogliono “i cittadini”?. Significa che lo vogliono gli elettori, specialmente quelli bianchi, di classe medio-alta, eterosessuali, motorizzati. Finché le politiche urbane saranno costruite su di loro non si potranno mai gettare le basi per una società più giusta, più equa, inclusiva e sicura, nel senso “umano” del termine.
Cosa manca quindi in questo quadro? Manca, come al solito, la voce di tutte le anime dei quartieri di cui tanto si parla. Lo si vede in relazione alla scelta di voler sgomberare XM24, alla scelta di costruire il Passante Nord, rispetto al progetto Fico, e così via. L’elenco potrebbe continuare a lungo. Eppure questi quartieri da qualcuno sono abitati, guarda caso ci vivono le persone con il reddito medio più basso della città (Navile e San Donato in testa), da un numero crescente di migranti. Sono abitati da migliaia di bambini e bambine, di ragazzi e ragazze adolescenti – spesso seconde generazioni e quindi “non cittadini” per eccellenza – sempre più esposti al rischio di abbandono scolastico e di esclusione sociale. Sono abitati da precari, giovani e non. Ecco, è da queste persone e dalla risposta ai loro problemi e dall’orizzonte dei loro desideri che un’idea diversa di città deve partire. Perché sono queste le persone che fanno vivere quotidianamente gli spazi urbani incompiuti e sospesi, reinventandoli e trasformandoli e “banalmente” vivendoli.
Rigenerare, collaborare, riqualificare, immaginare, innovare, risultano allora solo azioni vuote se non sono messe in relazione a un contenuto. Per usare le parole di un vecchio sociologo tedesco, la città dovrebbe essere il luogo della massima affermazione della differenza umana e quindi il contesto in cui i progetti di autorealizzazione degli individui possono prendere forma ed essere portati a compimento. L’idea di Simmel ci sembra molto più moderna di quella che viene presentata oggi perché pensa una città costruita intorno alle persone che la abitano – a tutte le persone che la abitano – nel presente, adesso. Ripartire da cosa, perché e per chi, per ricostruire la sostanza stessa della città. (bolognina basement)
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