Ciò che mi porto dentro varcando la sala è una domanda: cos’è che rende un film “lesbico”? Sono da poco arrivata al Some Prefer Cake di Bologna, festival internazionale di cinema lesbico ideato da Luki Massa e Marta Bencich nel 2006 per coniugare attivismo, cinefilia e condivisione comunitaria. Mi adagio sulla poltrona pronta a farmi suggestionare dalle immagini, poi puntuale arriva il buio e il viaggio ha inizio.
Sookee – Off seahorses and closet (diretto da Kerstin Polte) e Una banda de chicas (diretto da Marilina Giménez), sono due documentari che raccontano le implicazioni politiche del fare musica femminista fuori e dentro l’Europa. Sullo schermo la storia di Sookee – artista hip-hop tedesca, queer e femminista, da anni impegnata nella lotta a sessismo, omofobia e razzismo nel mondo dell’hip-hop – e le vicende di una serie di gruppi musicali femministi dell’Argentina contemporanea, alle prese con un mondo spesso violento, incapace di riconoscere la professionalità delle donne.
I due film, per niente simili nelle scelte registiche, si assomigliano per la capacità di raccontare tanto la determinazione quanto le difficoltà che le donne incontrano per affermarsi nella scena musicale contemporanea; entrambi poi mettono in evidenza il legame arte-vita che anima le protagoniste dei film. In questo senso, sono proprio le vite narrate sullo schermo la risposta alla domanda inziale: è nelle esperienze quotidiane delle protagoniste, nelle scelte di vita, nei loro testi, nella non conformità dei loro corpi e dei loro atteggiamenti, che il lesbismo come pratica politica e non semplicemente come preferenza sessuale si esprime, andando oltre il limite imposto dalle storie d’amore classificate come “lesbodrammi”.
I due documentari sono lesbici non tanto per la trama quanto per la scomodità dello “sguardo”: auto-determinazione, testi taglienti che in poche rime smascherano il sessismo e l’omofobia, corpi non immediatamente assimilabili a un genere e quindi capaci di riflettere la frammentarietà delle nostre vite addormentate dal conformismo. Attraverso il cinema e la possibilità di raccontare storie di vita dissidenti, fuori dalla norma e dai generi, il lesbismo infrange lo specchio che riflette l’immagine addomesticata della lesbica innamorata o alle prese con “banali” incomprensioni adolescenziali, per diventare racconto corale di chi non ha paura di esprimersi come altr* rispetto al regime eterosessuale che, seppur lasciando spazi periferici di espressione a registe e attrici lesbiche, ne vorrebbe a tutti i costi normalizzare le narrazioni, i desideri e le passioni.
Anticonformista e dissidente è anche Game Girls, documentario del 2018 della regista polacca Alina Skrzeszewska, incentrato sulle vite di Teri e Tiahna nel caotico mondo di Skid Row, quartiere di Los Angeles noto per essere la “capitale delle persone senza fissa dimora”. Fin dalle prime scene la regista, che ha vissuto per tre anni consecutivi a Skid Row, ci racconta il precario equilibrio che sostiene le due donne alle prese con un ambiente violento ma non indifferente, povero ma solidale, apparentemente senza speranza, ma da cui è invece ancora possibile uscire. Quella di Teri e Tiahna non è solo una storia d’amore ma la ricerca e la costruzione di una possibilità di riscatto sociale. Insieme, le protagoniste riescono a costruirsi un’altra opportunità, oltrepassare il confine di Skid Row, lasciarsi alle spalle la strada per confrontarsi con nuove sfide e ambizioni. Così connotato, il loro amore diventa strumento di emancipazione e di contronarrazione di un’ambiente concepito come privo di emozioni e sentimenti positivi, in quanto povero e degradato.
Anche in questo caso, il film è un film lesbico non tanto per la storia d’amore che in piccola parte racconta, ma per lo sguardo della regista, mai banale o confortante; la passione che lega Teri e Tiahna, caratterizzata anche da momenti di violenza e scontro fisico, non si esaurisce nella coppia ma diventa strumento di lotta per realizzare qualcosa di diverso da ciò che le due protagoniste hanno sempre avuto o visto. Se, come ci suggerisce l’autrice femminista francese Monique Wittig, le lesbiche sono delle guerrigliere che si sottraggono alla norma eterosessuale, attraverso la loro “fuga” da Skid Row Teri e Tiahna non sono più donne passive e arrese, ma soggetti indipendenti in grado di autodeterminarsi sia come donne che come lesbiche.
L’autodeterminazione e la voglia di rivoluzione sono i sentimenti che attraversano anche Born in Flames, audace film diretto da Lizzie Borden nel 1983, in piena epoca Reagan. La sorprendente scena conclusiva, ovvero l’attentato alle antenne delle Torri Gemelle da parte di due gruppi di lesbiche radicali street punk, riassume l’intero senso del film: davanti alla crescente violenza contro le donne l’unica soluzione è l’azione diretta. Definito dalla stessa regista come un “atto di ribellione” nei confronti di un’educazione e di un sistema di oppressione da cui ha preso le distanze, e classificato da molti critici come un esempio di “guerrilla filmmaking”, Born in Flames è il racconto della necessaria alleanza che dovrebbe scaturire nel momento in cui l’attacco alle donne e alle lesbiche, sia bianche che nere, diventa costante; riflettendo sulle connessioni che legano sessismo, classismo, razzismo ed eterosessismo, Born in Flames combatte le differenti sfaccettature di un potere che vede nell’assoggettamento delle donne uno dei suoi principali campi di battaglia.
Anche in questo caso, un film è lesbico non tanto per la trama (da cui sono quasi assenti scene d’amore tra donne) ma lo sguardo politico della regista: scomodo, difficile da accettare ma assolutamente contemporaneo, perché perfettamente in grado di dialogare con le istanze che la nuova ondata femminista sta portando avanti in diverse parti del mondo. Esempio concreto di una rivoluzione necessaria e possibile, Born in Flames ci ricorda che ogni mezzo è consentito affinché un cambiamento, tanto politico che culturale, si realizzi. (rita marzio)
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