Sarà proiettato mercoledì 22 febbraio, alle 20:30, a Galleria Toledo (vicolo I Porta Piccola a Montecalvario, 34) Still Recording, di Ghiath Ayoub e di Saeed Al Batal. Il film chiude la prima edizione della rassegna A FUOCO! Fare cinema sotto attacco (dal 1 al 22 febbraio, in Galleria Toledo).
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In una stanza di Douma, a est di Damasco, Saeed tiene una lezione di cinema a un gruppo di ragazzi poco più giovani di lui. Ci sono tappeti stesi sulle pareti e un proiettore al centro, sul muro scorrono le immagini di un film d’azione con vampiri: «Questa all’inizio è un’inquadratura in campo largo», dice Saeed. «Questa inquadratura è tipica di questo film. Notate come ogni fotogramma in questo film sia come un quadro, una fotografia. Può funzionare da solo». Lo studio delle immagini proiettate è l’occasione per ragionare sulle tecniche della ripresa: «Noi non le facciamo così le riprese. Solitamente siamo nel mezzo dell’azione». Il gruppo che si sta formando adotterà uno sguardo diverso e consapevole: «Trovate il momento chiave per iniziare a filmare. Capite il perché volete filmare. Capito questo, il resto viene da sé».
Ho descritto l’inizio di Still Recording di Ghiath Ayoub e dello stesso Saeed Al Batal. Il film seleziona quattrocentocinquanta ore di immagini girate durante la ribellione contro il regime di Assad nella parte occidentale della regione di Ghouta, accanto alla periferia della capitale siriana. Un gruppo di operatori aderisce alla guerra civile e riprende gli scontri armati fra i palazzi di Douma: un Mig nel cielo sgancia la bomba, un giovane cecchino è appostato nella sua camera da letto, ribelli tentano di colpire un carro armato dell’esercito regolare. Nei mesi Douma è accerchiata, scende la neve e i combattenti fanno la fame. Saeed ha allestito un piccolo studio di registrazione sotto le bombe e risponde in diretta alle domande di un giornalista straniero: «Qui [a Douma] vivevano settecentocinquantamila persone, e ora ne rimangono circa duecentocinquantamila. […] Mangiamo un pasto al giorno, non è rimasto nulla. […] Io non impugno armi, vado solo in giro con una videocamera, che è comunque un tipo di arma, o almeno è ciò che penso. Al fronte vado e sto al fianco dei ribelli armati, ma ci vado per filmare». La camera è come un’arma, forse ogni strumento che impieghiamo può essere pericoloso. Allora lo studio dello strumento, la conoscenza della sua origine e la riflessione sul metodo sono atti necessari per controllare il pericolo, agire con responsabilità critica.
Diffido dell’autore che ambisce a nascondere il proprio corpo tramite effetti di scena. La camera, come l’occhio, è parte del corpo, e ogni corpo lascia la sua ombra. In un porticato sono ammassati i cadaveri di uomini e ragazzi uccisi dai soldati di Assad, è notte e un faro li illumina. Contro la parete appare l’ombra dell’operatore che riprende. Poi il primo piano di una mano giovanissima, scorticata, e una formica che vi cammina. In un’area suburbana ci sono i resti di un missile, una delle armi chimiche usate dal regime. Sono morti millecinquecento civili, asfissiati, e intorno ci sono i cadaveri delle galline. Ecco l’immagine è una prova del crimine di guerra, ma contro il missile si scorge l’ombra dell’operatore. «Tutti morti, anche le colombe», dice un testimone. In una sola sequenza si tengono assieme i documenti di barbarie e la tecnica usata per registrarli.
La camera è parte del corpo e dunque ogni immagine risente del respiro, della paura e della fatica di un soggetto vivente. Se arrivano i caccia in cielo, bisogna scappare; se senti la raffica oltre il muro, abbassa la testa, togli la mano. Un mattino l’operatore sale sul tetto per riprendere l’incendio causato da una bomba: «Come faccio a salire? Dammi la mano. Come? Un piede qui. E l’altro là». Oltre la botola compare uno spicchio di cielo, ansima chi riprende, l’inquadratura si sposta sui palazzi del quartiere: fra i detriti, le antenne e il volo di un uccello compare il fumo lontano. L’operatore indugia perché ha lentamente configurato un paesaggio: brilla il sole in cielo, al centro svetta un palazzo disabitato. «Hai ripreso il panorama?», chiede qualcuno. Anche il paesaggio, come ogni immagine, è frutto dello sforzo di un corpo gravato di fatica, carico di sentimenti. La mano dell’operatore ha uno scatto nervoso, l’immagine scompare perché in cielo si sente il sibilo di un nuovo caccia in avvicinamento.
La camera è incorporata dunque, ma può fare mosse all’occhio biologico non consentite. Per esempio posso rivolgere la camera verso il mio volto, e riprendermi. Vediamo spesso cosiddetti selfie o autoscatti, ma in Still Recording l’immagine di sé è un consapevole prodotto dell’estensione corporea dello sguardo. In un isolato disfatto dalle bombe Saeed cammina, si sente il suo passo sul selciato coperto di macerie. Saeed si guarda intorno, là in fondo appare un minareto, posa a terra la videocamera che ancora riprende. Entra nell’inquadratura e vedo Saeed con una macchina fotografica catturare visioni della devastazione. Il suo corpo è al di qua e al di là dell’immagine. Finalmente il selfie non è auto-rappresentazione narcisistica, ma ragionamento sull’origine dell’inquadratura, sul metodo della ripresa. Questa coscienza di sé e dell’immagine è il fondamento dell’ironia tragica di Saeed: egli mostra di esserci e questo crea una distanza critica, un avvertimento sulla non coincidenza fra mondo e corpo osservante – anche nella più terribile delle situazioni. E il corpo, allo stesso tempo, è frammentato, dislocato, posto a diverse distanze, perché l’occhio meccanico ha un’estensione diversa dagli apparati sensoriali organici. Esso, allora, può riprendere anche se l’operatore è colpito da un proiettile. Riprende ancora. Eppure lo sguardo della camera è limitato, ha perso di mobilità, perché resta un organo che appartiene all’uomo caduto: l’occhio meccanico non è autonomo. (francesco migliaccio)
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