Il 26 luglio scorso è stato chiuso al pubblico e agli studiosi l’accesso ai documenti conservati presso la sezione dell’Archivio comunale di Napoli sita nell’ex Ritiro di Santa Maria della Purificazione e dei Santi Gioacchino e Anna a Pontenuovo tra via Cesare Rosaroll e via Cirillo. La chiusura è causata da un cedimento statico della parete esterna della struttura e secondo l’assessore Nino Daniele, che oltre al turismo e alla cultura detiene anche le deleghe agli archivi, si tratterebbe di una chiusura temporanea. È bene tener presente che nella sezione sopraddetta sono conservati documenti relativi al periodo post-borbonico fino a circa gli anni ’30 del ‘900. Gli anni successivi – i cui documenti rappresentano delle fonti preziosissime per lo studio della storia contemporanea, non solo di Napoli ma del Mezzogiorno se non dell’intero paese – sono conservati nella sezione di San Lorenzo Maggiore, inaccessibile ormai da svariati anni. A oggi quindi Napoli risulta essere una città priva di archivi consultabili, almeno quelli che gli storici considerano gli scrigni delle fonti primarie, tenendo anche conto che la sezione dell’Archivio di Stato di Napoli non ha ancora catalogato i lasciti cartacei dal 1946/1949 per mancanza di spazio dove allocare i documenti.
In assenza di fonti primarie, per scrivere e ricercare di storia contemporanea e sceglierlo di fare magari sul secondo dopoguerra, investigando le diverse fasi della modernizzazione politica, sociale, economica e culturale alle nostre latitudini, bisogna fare di necessità virtù, soprattutto se si agisce per necessità, bisogno di sapere e conoscenza e non per burocrazia accademica. Le fonti si moltiplicano, così come le discipline che si incrociano e le tracce che si seguono. Una di queste è senz’altro la (buona) letteratura, per esempio la tetralogia di Elena Ferrante L’amica geniale, di cui a due anni dalla pubblicazione dell’ultimo volume scriviamo alcune considerazioni provando ad approfondire alcune questioni a noi particolarmente a cuore.
In primo luogo, il successo della storia di Elena Greco e Lina Cerullo e del loro mondo, non ha intaccato l’ammirevole posizione dell’autrice anonima, che non ha ceduto alla spettacolarizzazione svelando il mistero che cela la propria identità e limitandosi a concedere alcune (poche) interviste assai ben calibrate e a testate non solo nazionali. A differenza della protagonista, che del mestiere di scrivere fa il pilastro della propria identità (sociale e individuale) la Ferrante si è sottratta a tranelli ben orchestrati (la candidatura al premio Strega, per esempio, che di norma serve agli autori per entrare nel magico mondo della promozione e dei ricchi anticipi); anzi, ci sembra che abbia usato il successo internazionale del libro per ben altri scopi.
Napoli ha avuto una narrazione che finalmente prende in esame un periodo storico ancora molto poco studiato e soprattutto il sottoproletariato e le sue dinamiche costitutive e identitarie sono state raccontate evitando entusiasmi o condanne; il crimine è stato raccontato con la delicatezza di chi ne subisce la quotidianità e gli effetti delle relazioni di potere a esso intrinseche. La lotta di classe, la politica, la militanza hanno assunto una “calettatura” finora inedita; la città stessa si è spogliata dell’esotismo che tanti scrittori, più che scrittrici, hanno coltivato pur di assecondare la propria visuale. La Ferrante insomma ha offerto una declinazione entusiasmante di una certa letteratura femminile e meridionale (Morante, Ortese, Ramondino) riuscendo a dar vita a una pratica di sottrazione, di scarnificazione degli individui e del quadro delle relazioni sociali in cui si muovono per l’intero tempo dei romanzi.
Ma forse l’aspetto più sorprendente della tetralogia è quello relativo al contributo che essa rappresenta come fonte a stampa e letteraria per la storiografia del nostro paese e in particolare di Napoli e del Mezzogiorno. Perché? Crediamo per alcuni ordini di motivi principali.
Il primo è la descrizione intima (il tratteggio dei personaggi che animano la storia) della dinamica relazionale che muove i rapporti tra le classi tra il dopoguerra e gli anni duemila, non racchiusi in schemi interpretativi ma pennellati da diverse sensibilità individuali maschili e femminili. Le incursioni continue di quadri e matrici culturali stratificate in ambienti diversi e le reazioni che producono, i disastri e i successi delle diverse biografie raccontano quella tensione che ha diretto il complicato sviluppo della modernizzazione meridionale. Lo studio, l’impegno in attività commerciali, la scoperta della scienza e della tecnica applicata all’impresa così come le mutazioni nella relazione con l’infanzia, la diversità del crescere, delle età, del divenire adulti in fasi diverse della storia ma nello stesso luogo diventano materiale capace di suggerire percorsi di ricerca e approfondimento. Spingono gli storici e le storiche a interrogarsi sulla trasformazione non solo sociale ma antropologica, non solo del sottoproletariato ma anche di quella borghesia da esso affascinata o atterrita.
La presenza latente del discorso politico aiuta a soffermarsi su singoli fotogrammi di una pellicola che scorre dando vita a un movimento inusuale: la città diventa un organismo unico, un insieme di organi necessari e interdipendenti. Insomma, sembra che finalmente l’assurdità della violenza, dell’acquiescenza, delle trame sotterranee assuma un’interezza capace di essere penetrata e non interpretata. La storia di un’amicizia diventa il paradigma di una dinamica collettiva, uno strumento di investigazione di un insieme collettivo che non può fare a meno delle specificità individuali tanto temute ma così necessarie alla storiografia del tempo recente. La diseguaglianza sociale può essere finalmente aggredita da prospettive multiple, grazie a una narrazione che si sottrae a rappresentazioni di comodo, ad ammiccamenti, svelando forse la debolezza di conclusioni epigonali quanto autocommiserative.
Un secondo aspetto riguarda la capacità di attraversare con leggerezza particolari momenti di cesura storica della città (e del paese). La speculazione edilizia (le mani sulla città), l’emigrazione di massa, il colera del 1973, la lotta (la scelta) armata, il terremoto del 1980, l’ascesa dell’immoralità craxiana, il berlusconismo non sono punti di svolta epocali ma svincoli individuali che vengono attraversati come istanti qualunque, come propaggini di un quotidiano inevitabile le cui conseguenze si frammentano nel tempo delle biografie intrecciate. Quest’attraversamento rappresenta un punto di partenza per iniziare a immaginare percorsi di riflessione e inchiesta finalmente privi del timore di coinvolgere – tanto su piano archivistico che documentale – l’aspetto individuale, il che implica il soffermarsi sui dettagli, il distanziarsi dalla rappresentazione generale per favorire quegli elementi funzionali a restituire un’interezza inaspettata a una catena di frammenti, di accenni, di approfondimenti specifici finora incapace di sostenere una qualsiasi architrave interpretativa della storia (e della storiografia) del Mezzogiorno. Chiaramente si sta scrivendo di suggestioni, di impulsi inaspettati, di approcci non frequentati. Si sta scrivendo – forse – dell’effetto che fa il leggere (lo scoprire) l’invenzione di una categoria, di un quadro letterario che per i più è sembrato una dinamica interiore, legata a una posizione di un unico personaggio dell’Amica Geniale. Lo smarginamento, gli smarginamenti di Lila sono stati descritti – anche dalla stessa autrice – come un momento individuale di transizione da uno stato a un altro. Un po’ come l’effetto di concatenazione chimica che porta l’elemento gassoso a divenire liquido grazie all’intervento antropico. Lo smarginamento quindi, diventa – potenzialmente – non soltanto un momento di terrore psichico individuale, ma una suggestione storiografica che potrebbe indicare il momento – l’insieme di istanti – durante il quale una configurazione collettiva assume, interiorizza la trasformazione, la cesura, scaturita dalle centinaia di reazioni, paure, timori, ansie manifestatesi nelle configurazioni storiche individuali. Quell’incontro di fotogrammi fissi che danno vita all’immagine in movimento, quel divenire consapevole di esser diventati qualcos’altro, quel qualcosa che non si era e che non si sa ancora come definire. Quel qualcosa che rende il mestiere dello storico necessario proprio perché renderà descrivibile l’attraversamento del quotidiano.
La lettura posticipata di quello che è stato definito un fenomeno letterario, ci ha suggerito una potenziale lacerazione delle categorie da usare per provare a scrivere una storia contemporanea del Mezzogiorno e del paese a partire da una prospettiva subalterna, ovvero l’assumere uno sguardo in cui la marginalità, il femminile, il maschile, il radicalismo, il consumismo, la modernità, possano iniziare a essere considerate categorie d’analisi da confrontare con le esperienze individuali, così come alla narrazione documentale degli archivi (per la maggior parte ancora inaccessibili) possa corrispondere il montaggio di elementi scaturiti da archivi informali. Soprattutto, e proprio perché si scrive con distanza ragionevole dopo la pubblicazione del quarto volume della tetralogia, speriamo (e invitiamo) che da questi libri non vengano tratti soggetti né sceneggiature per serie cinematografiche o film. E non perché si ha sfiducia in coloro che vorranno (o vogliono) cimentarsi nell’impresa, ma perché per una volta vorremmo seguire il sottotesto dell’autrice, che sembra virare verso l’affermazione dell’autonomia e della potenzialità della scrittura di incontrare lettori – più o meno preparati, più o meno consapevoli – nella propria individualità e da questa partire per affermare la compiutezza della riuscita narrativa e letteraria del testo. Il collettivo è fatto da individui, così come la storia. Questo e nient’altro. (-ma)
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