Nessuno escluso, neanche Anna. Arriva questa signora, bassa, caschetto nero, di mezza età, veste sobria, è Anna. Anna saluta Mimmo e chiede se stavamo aspettando lei per aprire. Ci guarda con la faccia a forma di punto interrogativo, poi Mimmo le spiega velocemente chi siamo, si apre in un sorriso e ci invita a seguirla. All’interno di un palazzo popolare, una stanza ci accoglie. Alle pareti le regole del gruppo, i dodici passi, articoli di giornale che testimoniano l’impegno dei G.A., una preghiera laica che dice così: “Concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso e la saggezza di conoscerne la differenza”.
Le sedie impilate, Mimmo accenna a metterle in cerchio, ci sediamo. Sono le 18:40, l’incontro è previsto per le 19:00 e dura un’ora e mezza circa. Anna è una moglie, una delle tante donne che convincono o cercano di convincere i loro congiunti a farsi aiutare, a recarsi qui. «Sono in questo limbo da sette anni perché mentre lo scopri, mentre lo comprendi, mentre lo accetti…». Sono tre anni che segue il gruppo di sostegno per i familiari dei giocatori che si tiene al piano di sopra contemporaneamente a quello G.A., e cioè i Gamanon. Dice che con il marito non è mai riuscita a festeggiare un anno di astinenza dal gioco. Sarebbe bello, perché al primo anno di astinenza ti fanno una festa di compleanno alla quale partecipano tutti i membri delle zone limitrofe, motivo per il quale alcuni precedenti appuntamenti che avevamo furono annullati, i compleanni non mancano. Il marito non è uno di quelli costanti, lei sì. Si è integrata ed è una presenza fissa, al punto da offrirci anche un caffè. «La cosa investe tutta la famiglia – dice – e sono continui sbalzi di umore, bugie, stanchezze», e non puoi niente alle volte neanche se mandi la persona a dormire sotto i ponti (letteralmente). «Gli altri (se vengono cacciati di casa) hanno le mamme, i papà ad accoglierli, mio marito no». Racconta che suo fratello era dipendente da sostanze, che oggi sta bene e ha una famiglia, che è stato aiutato dalla comunità La tenda. Insomma, questa è una donna che è tutta la vita che entra ed esce dalle dipendenze, senza mai averne avuta una propria. Poi racconta dei giovanissimi che si avvicinano a questa realtà per curiosità o in modo incostante. Che sono i più arrabbiati e lei non se lo spiega perché, lei alla loro età era felice e vedeva una vita fatta di lavoro, figli, matrimonio davanti a sé. Sorride Anna, sorride ancora ed è ironica anche su aspetti drammatici.
Michela l’abbiamo incontrata nella stessa sala quando siamo tornati una seconda volta. È una donna dolce, ci fa accomodare e fa gli onori di casa. Di fianco a me su una sedia i suoi occhi vivi, al punto che ci cado dentro. Ha un doppio destino, Michela, anche il padre come il marito era un giocatore patologico. È madre «di due figli splendidi». Quando si è sposata pensava: «Glielo faccio togliere io il vizio a mio marito». Dice di essersi sentita onnipotente, di non essersi resa conto in tanti anni che andava perdendo la sua identità. Era appiattita sugli umori del marito. Se faceva una vincita, lei galoppando la felicità di quel momento tentava, anche dandogli addosso, di spiegargli che non si poteva andare avanti in quel modo. Se perdeva, cercava di mantenere basso il livello del conflitto. Come Anna, Michela fa di tutto per farlo smettere. Aiuta, aggredisce, ignora, caccia di casa. E ti dimentichi di te. «Tu con la mente stai sempre dove chi ha il problema sta, se qualcuno mi diceva qualcosa e aspettava che io rispondessi, io non sapevo neanche di cosa mi stava parlando». Tu ci sei ma non ci sei mai, loro ci sono ma non ci sono mai. Non è vita, dice. E lo dice anche un’altra signora che ha iniziato a frequentare il gruppo dei familiari perché il figlio usa sostanze e gioca. I Gamanon, lo scrivo, perché non posso dimenticare gli occhi pieni di speranza con cui Michela mi ha pregato di ricordarmeli, «sono importantissimi, sono fondamentali» ed è davvero così. Sopperiscono a tutto ciò che manca nella prevenzione, nella tutela, nella cura, quel welfare per cui l’ultima stima del 2012 parla di sei miliardi e mezzo di euro di costi sociali e sanitari. Considerando che allo stato vanno circa otto miliardi di euro netti ogni anno, il guadagno non è irrisorio ma non vale la spesa umana.
Michela è arrivata ai Gamanon più di sette anni fa, accompagnando un’amica che aveva un problema analogo al suo e da lì, dice, è iniziato il cambiamento. «Ho iniziato a venirci da sola, tanti amici e familiari vengono nonostante chi ha la malattia si rifiuti di venire. Un sostegno serve anche a noi che ci ammaliamo appresso a loro. Mi rendevo conto dopo poche settimane che ascoltare altre storie faceva sentire meno soli. Condividere, confrontarsi, ti faceva e ti fa imparare. Ho iniziato a cambiare io, l’ho capito qui, dopo una vita intera, che non potevo cambiare lui, che non puoi aiutare chi non vuole. Allora ho riflettuto sui miei sbagli verso me stessa, mio marito e i miei figli. Intanto, ho scoperto che il gioco non è un vizio ma una malattia. Poi ho iniziato il cambiamento su di me. Ho iniziato a non stare più sempre dietro a ciò che faceva e non faceva, a distinguere il gioco dal giocatore e il giocatore dal marito ed è lì che, dopo poco che aveva iniziato la dialisi, ha iniziato a venire anche mio marito». Le chiedo com’è la vita oggi e lei mi dice più bella. «Ho recuperato il tempo con i miei figli, si sta più tranquilli, chi c’è è presente davvero». (leda marino)
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