Insieme a un gruppo di volontari provenienti dai più svariati paesi, il 15 maggio ho iniziato un viaggio a ritroso lungo la rotta balcanica, alla ricerca dei migranti bloccati negli stati balcanici da quando i confini sono stati chiusi uno dietro l’altro. Qui vi racconto cosa succede nel nord della Serbia.
Da quando il governo ha deciso di sgomberare gli accampamenti spontanei sorti a Belgrado e Subotica, tutti i migranti sono stati portati nei campi; chi rimane fuori trova posto nelle jungle, collocate quasi sempre nei pressi dei confini. Una delle jungle si trova nei pressi di Sid, al confine con la Croazia ed è abitata da centinaia di migranti, settecento ci dice uno di loro. Qui si aspetta di passare, si aspetta il momento giusto, che sembra non arrivare mai.
I migranti, per lo più nord-africani, pakistani e afghani, tentano continuamente, alcuni anche ogni giorno, di raggiungere la Croazia. Ogni volta sono respinti brutalmente dalla polizia croata, che ormai adotta pratiche sempre uguali: i migranti vengono picchiati e derubati, sia del denaro che del cellulare. Tutto ciò dovrebbe avere una funzione deterrente, ma le persone non possono accettare di rimanere bloccate senza alcuna prospettiva. E quindi si continua a camminare verso il confine per tentare di oltrepassarlo. C’è chi ci riesce, ma viene identificato più in là lungo la rotta e di nuovo deportato nel paese di transito precedente, in un gioco dell’oca infinito, dove tutti sono pedine delle politiche migratorie miopi e ottuse dell’Unione europea e degli stati balcanici.
Un ragazzo pakistano molto giovane mi dice che preferirebbe essere deportato nel suo paese invece che restare bloccato nella giungla di Sid. Un altro ha tutta la sua famiglia in Germania e non demorde. Le deportazioni sono troppo costose per i governi degli stati balcanici, quindi ci si limita a bloccare le persone negli stati in cui sono transitati impedendogli sia di procedere che di tornare indietro.
Da quando i confini sono stati chiusi, uno dopo l’altro, dopo l’accordo tra Ue e Turchia a marzo 2016, se per queste persone si è chiuso il corridoio verso l’Europa, per altre – i cosiddetti smuggler – si è aperta un’opportunità. Chi conosce la rotta e i modi per aggirare i controlli possiede risorse preziose da mettere in vendita. La domanda per questo tipo di conoscenze cresce parallelamente al crescere delle restrizioni imposte dalle politiche migratorie. Così, nell’ultimo anno, il lavoro per gli smuggler è aumentato.
Sempre nelle jungle serbe incontriamo un ragazzo dalla faccia simpatica, vive in una tenda insieme a una ventina di compagni. È ora di pranzo e organizziamo un picnic a base di pizza. Chiacchierando scopriamo che uno di loro ha solo diciannove anni, in Pakistan studiava microbiologia, anche suo fratello è qui nei Balcani ed è uno smuggler. Pian piano diventa chiaro che anche tutti gli altri sono qui per questo. Con le parole di uno di loro, quello che fanno è aiutare le persone più povere a passare i confini, ovviamente dietro compenso.
La maggior parte di loro ha tentato molte volte di passare, poi a un certo punto hanno pensato di sfruttare il bagaglio di conoscenze accumulate per racimolare i soldi necessari a tornare a casa e iniziare una vita dignitosa, la stessa che speravano di ottenere raggiungendo la meta di loro scelta.
Nei luoghi di confine, in attesa che l’imbuto balcanico torni a essere un corridoio, può succedere di guardare la realtà da un’altra prospettiva. I confini, non solo quelli geografici e politici, si fanno labili. Il bianco e il nero sfumano nei colori di una realtà più complessa. Capire chi è il buono e chi è il cattivo diventa più complicato, forse nemmeno serve. In questi luoghi può capitare di imbattersi in un gruppo di smuggler e far fatica a crederci, perché l’idea del trafficante che si ha nella testa è quella di un criminale intento solo a sfruttare la condizione di bisogno e disperazione di altri esseri umani. A volte, però, in questi luoghi capita di incontrare smuggler a cui piace la musica, la scienza e la poesia; che durante un picnic a base di pizza serba sono pronti a improvvisare canzoni tradizionali in urdu e pashtu, strimpellate sul charango di un clown statunitense. Allora ci si raccoglie, in silenzio, per ascoltare le poesie recitate da due di loro, ci si concentra sulle voci dei poeti e sul suono delle campane di una chiesa, che rimbombano in lontananza. In attesa che tornino a viaggiare le persone, facciamo viaggiare le poesie. (nerina schiavo)
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