Vi ricordate quando a piazza Capodichino c’erano i pazzi? Camminavano avanti e indietro mischiati ai tossici perché il Leonardo Bianchi era aperto e aperte erano pure le rovine abbandonate che stavano all’imbocco di viale Umberto Maddalena, ed era un via vai di gente, tutti con gli occhi vuoti e bassi come chi non li voleva vedere e faceva finta che non ci fossero, che tanto prima o dopo avrebbero smesso. In questo venerdì pre-vigilia la gente a Secondigliano si chiedeva se quei pazzi non fossero tornati, tutti assieme a dirsi cose strane proprio in quella piazza, crocevia di destini infiniti. «Ma song’ d’‘a chiesa? So’ evangelisti?».
«No signo’, chist è ‘o teatro!», però una novella sembrano volerla portare davvero e la gente è stranita, avvolta dal freddo pungente li guarda da lontano questi pazzi, poi poco a poco si avvicina. E questi ti fanno domande, ti chiedono come ti chiami, che conflitto tieni, che tu ce ne hai così tanti di conflitti e hai così bisogno di parlarne che a bruciapelo non ti viene di rispondergli proprio niente. Sono giovani, tra loro c’è anche qualche migrante che qui in questa piazza siamo abituati a vedere davanti al semaforo intento ad abbuscarsi la giornata, con la pioggia a zeffunno e con il solleone, che vederli in mezzo ai napoletani sotto Natale pensi subito a qualche iniziativa pia di una parrocchia qua attorno. Invece stavolta la parrocchia non c’entra, la performance è stata pensata e voluta da Francesco Ciotola, della Nfo (Nuova fotografia organizzata), che ha messo insieme quelli di Manovalanza e Tommaso Pedone, video-artista pesarese, in un progetto che parte dal basso e si finanzia col crowdfounding degli associati di Progetto per Napoli che poi tiene la sede proprio in piazza.
Stasera il palazzo della sede è una festa di immagini proiettate che a confronto quelle quattro luminarie sul corso di Secondigliano sembrano poca roba. Pedone queste immagini le chiama azione di “art guerriglia” e le mescola sapientemente misurando la temperatura della folla e dei teatranti, che li riconosci perché tengono tutti il borsalino in testa e sopportano meglio il freddo. Se guardi sotto il cappello vedi gli occhi di fornace, tipici della gente che fa le cose perché ci crede, alla fine della performance questi ti hanno fatto fare di tutto: invitato a ballare, a volare in stormo come gli uccelli, a toglierti la polvere di dosso con un gesto ricorrente, quello che fai senza neanche accorgertene mentre sovrappensiero ripercorri la stessa strada di sempre senza guardarti intorno perché tanto lo sai che non è cambiato niente. E la gente gesticolava, ballava e correva, poca ma partecipe e stranamente a proprio agio anche nel prendere parola per rivendicare un diritto alla pace, «all’amore, che se no la pace non serve a niente», al lavoro, alla casa, a gridarlo al microfono, e allora l’impressione del gruppo parrocchiale lasciava il posto al corteo dei disoccupati – «ma che vanno truvanno signuri’, ‘o lavoro?».
«Vanno truvanno ‘e parla’, ‘o zi’», dico io che tanto lo so che da me vengono a chiedere. Appena apro il taccuino e mi appunto qualcosa si avvicina qualcuno a farmi una domanda, infatti se sbirci nei miei taccuini e ti fai il conto di tutte le frasi streveze e incomprensibili che scrivo, puoi capire quante domande mi hanno fatto quel giorno perché io, pur continuando a scrivere, alzo la faccia per vedere chi mi sta chiedendo e la cosa più interessante è proprio la faccia che segue la risposta, non sono mai soddisfatti, si aspettano sempre qualche altra cosa, che cosa non l’ho mai capito, forse a Secondigliano non ci credono che qualcuno sta qua senza una scopo, senza pretese, solo per condividere un momento, un disagio, un luogo. Qua chi viene fa il business, viene a costruire, a smerciare, a seppellire monnezza, a fare finta di aprire una biblioteca che poi chiuderà qualche mese dopo l’inaugurazione, cose così ja’. Allora c’è diffidenza e curiosità e tu lo senti proprio che a momenti è più forte l’una e a momenti è più forte l’altra. Fatto sta che questi pazzi stanno qua da più di quaranta minuti e non sono riusciti ancora a farsi dare un nome e allora vuol dire che questa cosa è viva, come solo le cose che succedono sanno essere, quelle che te le spieghi solo quando sono finite e ci ripensi.
Io voglio capire se torneranno, perché come tutti i secondiglianesi sono diffidente e curiosa pure io e chiedo ad Adriana Follieri e Davide Scognamiglio, i fondatori di Manovalanza, che mi dicono che il progetto si chiama De Bello Civili ed è nato nella primavera 2016 come ricerca sui conflitti di io (il conflitto interno all’individuo), casa (d’amore o di famiglia), città (tra individui), mondo (conflitto politico, ideologico), dio (i conflitti di fede, per la fede). Ugo Fanti, dello zoccolo duro di Manovalanza, con una faccetta sorniona esordisce: «Questo è solo l’inizio!», che detta così sembrerebbe una minaccia, invece è solo un modo a effetto per dire che ancora non si sa dove continueranno; coi progetti dal basso ti devi rimettere al buon cuore dei sostenitori e non c’è modo di fare troppi pronostici. Gli chiedo se sono stanchi e provati da questa logica. Adriana mi parla di resistenza e di alternativa a quel circuito chiuso che taglia fuori realtà come la loro, il teatro incartapecorito da settecentomila euro a spettacolo, per intenderci, quello che dopo i primi dieci minuti stai già abbacchiato sopra la poltrona. Mentre questi qua si fanno il mazzo, campano di formazione e di poche e selezionate collaborazioni, perché come mi spiega Fiorenzo Madonna nel mestiere del teatrante estetica e politica sono la stessa cosa e non te lo trovi il compagno di lotta tra quelli che fanno cose che ti fanno cagare, pure se è squattrinato come te, pure se assieme a lui ti potresti prendere, che so, almeno cento di quei settecentomila, che ci fareste a cinquanta e cinquanta almeno una decina di stagioni teatrali e stareste a posto. No, qui non funziona così, a ciascuno la sua poetica! Ci si sceglie, anche da lontano, e con fatica si resiste.
Sono contenta che questo giovane attore mi abbia detto con così tanta schiettezza quello che pensano tutti ma che pare sempre troppo brutto dire, e quando scrivo “tutti” penso ai partecipanti ai festival e alle compagnie di teatro off che sono tantissime, così tante che stanno solo loro, non tengono pubblico, a parte i loro colleghi teatranti, s’intende. Eh sì, perché i teatranti sono spesso pubblico di altri teatranti, se questa autoreferenzialità sia una forma di sostegno, di monitoraggio dello stato dell’arte o di semplice compulsione teatratoria non lo sa nessuno. È lecito però chiedersi perché chi si segue fa così fatica a unirsi, ed è ancor più lecito chiederselo oggi in mezzo a questo pubblico vero e disincantato a cui non basta una visita ogni tanto, e che dovrebbe essere preso in considerazione da una scena che lo racconti in opere pubbliche e teatri popolari, laboratori creativi che durino tutto l’anno e che ci abituino a una bellezza che adesso non sappiamo riconoscere e ci siano da stimolo a rivendicare, che quando vedi solo cose brutte ti senti brutto pure tu e sai solo quello che non vuoi, come i tossici che da domani riprenderanno a fare avanti e indietro tra piazza Garibaldi e Scampia e si riverseranno in piazza Capodichino a inciarmare, in mezzo a noi, occhi chiusi e spalle chine che tanto prima o dopo la smettono. (stefania spanò)
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