C’è un indubbio fascino che promana dalla figura di Pio XIII, il papa giovane (e americano) della prima prova televisiva di Paolo Sorrentino. Sigaretta quasi sempre tra le labbra, modo di fare disinvolto e per nulla ingessato, nessuna reverenza per potere costituito che non sia il suo, questo incantevole Jude Law in occhiali scuri – pienamente un “divo del cinema” – è spregiudicato, sprezzante, pure un po’ anarchico. Dice che vuol fare la rivoluzione.
Appena salito al soglio, emerso a sorpresa dalla rosa dei cardinali maggiormente papabili – ed è qui che comincia The Young Pope –, indirizza al mondo un’omelia all’insegna della libertà. Ma è soltanto un sogno. La sua idea di Chiesa si caratterizza piuttosto per oscurantismo e intransigenza. Rigetta l’attendismo e il calcolo politico incarnato dai suoi predecessori per dare vita a un papato dalla voce nuovamente forte, interventista, che rimette al centro del proprio dialogo con i fedeli il sacrificio come unica via a Dio, piuttosto che una facile promessa di misericordia indifferenziata in un mondo corrotto.
Insomma, un pontificato che affronta la contraddizione cruciale dettata dalla contingenza storica – la mercificazione dell’umano – non con la timidezza della convenienza, ma con il bastone della Legge come affermata dal Vecchio Testamento. “Il cuore e la mente occupati solo da Dio. Non c’è posto per nient’altro. Non c’è posto per il libero arbitrio, non c’è posto per la libertà, non c’è posto per l’emancipazione” – afferma nella sua prima omelia. La sua è una controrivoluzione.
Da qui discende la cura maniacale espressa dal Santo Padre per la propria immagine. A partire, giustamente, dalla sottrazione della stessa. Nel primo anno del suo papato, Pio XIII non appare in pubblico, e quando proprio deve farlo si presenta di spalle o in silhouette, ombra sfuggente appena percepibile. Vuole essere inconoscibile, irraggiungibile: come Dio, come il mistero della fede. Quel mistero svilito nella storia recente della Chiesa, che ha preferito “andare verso i fedeli”, adeguarsi – per politica pigrizia – alle imperfezioni umane piuttosto che affermare la verità rivelata della perfezione divina.
In ciò, l’intero conclave, che pure l’ha eletto, lo teme e lo avversa, gli trama alle spalle, non per particolari contrarietà ideologiche ma per il timore che un approccio così duro sia destinato a erodere il consenso, oltre che a mettere a repentaglio radicate posizioni di potere all’interno dell’istituzione. Il più acerrimo tra i suoi nemici è il Segretario di Stato, il napoletano cardinal Voiello di Silvio Orlando, lingua intinta nel veleno, diabolico tessitore di trame vaticane.
Dunque, se si tralasciano i canguri e alcuni altri scherzi e vezzi tipici del Nostro, e si rimane alla “lettera” di quest’ultimo lavoro sorrentiniano, fin qui il discorso è davvero interessante: con le sembianze gradevoli e colorate del pop, s’impone una sincera e benefica ventata di fanatismo che mostra il volto truce della Chiesa e fa un sol boccone del miele della propaganda.
C’è però ancora da aggiungere che Lenny Belardo – questa l’identità che si cela dietro la veste – è orfano; e, soprattutto, che è santo. A dispetto della scaltrezza politica che gli permette di districarsi tra i torbidi intrighi orditi dentro e fuori la Santa Sede, intrattiene un rapporto di cristallina purezza con la sua fede, anche nel momento in cui dubita – e Lenny dubita eccome. Agisce in maniera miracolosa almeno tre volte nel corso dei dieci episodi della serie: la preghiera gli permette di entrare in contatto con Dio e intercettarne (forse guidarne?) la volontà.
L’interrogativo che percorre l’intera serie non può dunque che essere: perché un uomo tanto puro da raggiungere l’orecchio dell’Onnipotente persegue scientemente una svolta di stampo – azzardiamo con leggera iperbole – terroristico? Forse che la santità stessa non è che uno strumento al servizio della politica, verrebbe da dire la continuazione dell’azione politica con altri mezzi? Forse il Dio di Sorrentino è dopotutto un Dio vendicativo, sadico, che tale impegno richiede perciò al suo vicario? Si trepida per dieci episodi, nove ore abbondanti, aspettando che maturi un’evidenza; nel frattempo è tutto a carico dello spettatore, intrattenuto dalle proverbiali sospensioni di senso del regista, comprendere in che modo e perché cinismo e candore si mescolino, navigando ancora una volta nel tutto e nel suo contrario. Ma, come al solito, Sorrentino non è da prendere troppo sul serio.
Nel quinto episodio della serie, il profilo del pontificato di Pio XIII si delinea nella sua forma più esplicita e più radicale, culminando in un violentissimo discorso ai cardinali incentrato sulla inaccessibilità di Dio e del suo emissario in Terra rispetto al popolo dei fedeli. Davvero una dichiarazione di guerra: «Non c’è niente al di fuori dell’obbedienza a Pio XIII; niente, eccetto l’inferno». Ma un attimo prima di attaccare la sua prolusione, il papa sogna/ricorda la sua “scena primaria”: quella in cui, bambino, fu condotto dai suoi genitori (una coppia di hippie…) al cancello dell’orfanotrofio dove sarebbe poi stato allevato. Riecheggia una sua invocazione: «Mi volto e i miei genitori sono ancora lì». Il ragazzino si volta, però, e loro non ci sono, l’hanno abbandonato. E attacca il discorso. Se voltandosi li avesse “visti”, avrebbe svolto il discorso con la medesima virulenza?
Altrove, episodio finale, la risposta. Omelia in piazza San Marco, Venezia: conducono qui le più recenti tracce dei genitori che Lenny si ostina a cercare. E qui il pontefice si rivolge ai fedeli che affollano la piazza, in modo improvvisamente mite, commosso. Come si rivolgesse ai suoi genitori ritrovati: «Dio sorride. Sorridete». Subito dopo un malore lo colpisce, chissà con quali conseguenze.
Sorrentino gioca con lo spettatore e con il suo stesso lavoro, ingigantisce la montagna fino a sortirne il più risibile dei topolini: uno scioglimento buonista. Che disattende il personaggio costruito fin lì, conferendogli un’umanizzazione improbabile e monodimensionale: Lenny Belardo si era travestito da papa per punire il mondo solo perché non si era ancora pacificato con i suoi genitori. Uno scioglimento deludente che fa affondare l’intera opera, non risparmiando nemmeno il terribile Voiello, che da maschera mefistofelica più andreottiana dell’Andreotti del Divo, finisce lesso e addirittura innamorato. E che ovviamente schiude le porte all’annunciatissima seconda stagione. Tanto per Sorrentino i conti con la verità – la verità della sua ispirazione poetica, delle sue motivazioni artistiche – si possono rimandare ad libitum. (armando andria)
Leave a Reply