Nel 2021 Milieu Edizioni ha pubblicato uno di quegli oggetti non ben identificabili che merita qualche riflessione. El niño de Hollywood è il titolo che i due autori, i fratelli Martínez, hanno dato al loro libro uscito in spagnolo nel 2018 e tre anni dopo curato e tradotto da due antropologi italiani, Andrea Freddi e Paolo Grassi. Incentrato sulla storia di Miguel Ángel Tobar, El Niño de Hollywood ripercorre la storia della Mara Salvatrucha (MS13), una delle gang più pericolose al mondo: dai suoi inizi in California alle sue attuali incarnazioni in America Latina e nel mondo.
La parabola esistenziale di El Niño è quella classica della vita criminale: un ragazzo povero senza prospettive viene ingannato e reclutato da un criminale più anziano diventando un assassino spietato e brutale. In cerca di vendetta per la morte del fratello, El Niño inizia a uccidere i suoi vecchi compagni di banda e a collaborare con le autorità fino a cadere vittima della sua stessa gang: troverà infatti la morte assassinato da tre membri della Mara Salvatrucha mentre stava tornando a casa dopo aver registrato la nascita della figlia.
Fino all’11 giugno 2015 i ragazzi latinoamericani in Italia, a leggere le cronache dei principali quotidiani, non facevano molta paura. Quel giorno, però, su un treno partito da Rho Fiera, dopo appena tre fermate, nella stazione di Villapizzone, avviene un fatto che cambierà questa percezione. Sono le 21:30 e un gruppetto di ragazzi ubriachi e molesti se la prende con un controllore che chiede loro il biglietto. Sono membri di una banda chiamata Mara Salvatrucha, o almeno si definiscono tali. Uno di loro estrae un machete e sferra un colpo: il controllore quasi perde un braccio. Milano scopre così l’esistenza delle maras, le gang centroamericane. Il 14 giugno, tre giorni dopo l’aggressione a Villapizzone, Roberto Saviano firma un articolo per Repubblica intitolato “Droga e machete, quel codice rosso delle gang latine”.
Eppure, già nei primi anni Duemila qualcosa iniziava a essere visibile. Giovani latinoamericani provenienti soprattutto dall’Ecuador, dal Perù, dal Salvador e dalla Repubblica Domenicana iniziano ad attraversare gli angoli delle strade milanesi, i parchi pubblici e alcune discoteche come luoghi di ritrovo. Si danno un nome, delle regole da seguire, stabiliscono dei rituali. Si autodefiniscono bande, pandillas in spagnolo, rivendicando a volte l’affiliazione a organizzazioni transnazionali, come nel caso dei Latin Kings; tali gruppi, nella maggior parte dei casi, sono il risultato di dinamiche migratorie recenti connesse a immaginari globali.
Contemporaneamente, a Genova accade la stessa cosa. Anche per questo, alcuni ricercatori iniziano a indagare. Nel capoluogo ligure il sociologo Luca Queirolo Palmas pubblica i primi articoli accademici sul tema. A Milano invece il punto di riferimento diviene l’agenzia di ricerca sociale Codici (basti pensare che gli studi urbani, in ambito socio-antropologico, se pensiamo alla Scuola di Chicago e a ricerche pubblicate sul finire degli anni Venti come quella di Frederic Trasher sulle gang di Chicago, nascono proprio indagando questi temi). Poi, però, a partire dal 2010, le pandillas sembrano svanire: scompaiono progressivamente dagli interessi del mondo accademico e dall’attenzione delle cronache locali, mentre le gang latinoamericane sembrano mutare: si fanno più violente, meno visibili, più organizzate. Appaiono nuovi gruppi e al termine pandilla se ne affianca uno nuovo, semisconosciuto fino ad allora alle stesse forze dell’ordine, quello di mara.
Grazie a libri come quelli dei fratelli Martínez e all’approfondito lavoro di ricerca di antropologi come Freddi e Grassi oggi ci è possibile decostruire determinati luoghi comuni e comprendere il punto di vista di ragazzi come quelli che si resero protagonisti della violenza a Villapizzone. Sono quasi tutti libri “ibridi”, per molti aspetti, che sanno far dialogare al meglio metodi di lavoro e stili di scrittura diversi, etnografia e reportage. Opere di inchiesta sociale (i fratelli Martínez hanno spesso collaborato nella redazione del giornale elfaro.net, qui una nostra intervista a uno dei due, Oscar) capaci di raccontare mondi lontani e al tempo stesso vicini ai nostri (“Perché volete raccontare la mia storia?”, chiede ai due autori El Niño un giorno dopo tre anni di frequentazioni. “Perché purtroppo crediamo che la tua storia sia più importante della tua vita, rispondemmo addolorati”, scrivono nel prologo del volume i fratelli Martínez).
Le maras nascono a Los Angeles negli anni Ottanta e proliferano negli anni Novanta in Guatemala, El Salvador e Honduras quando giovani centroamericani accusati di aver commesso dei reati vengono deportati dal governo degli Stati Uniti nei loro paesi d’origine. Due bande principali – la Mara Salvatrucha e il Barrio 18 – ottengono presto il predominio sulle altre bande già presenti in America Centrale, strutturandosi in organizzazioni dal più alto profilo criminale.
Nel 1980 El Salvador era entrata in una guerra civile, una voragine di violenza che ebbe bisogno di dodici anni per placarsi. I gruppi guerriglieri, uniti nel fronte comune Farabundo Martí per la Liberazione Nazionale (FMLN) combatterono contro il governo salvadoregno appoggiato dalla nuova amministrazione Reagan che lo rifornì di armi creando battaglioni d’élite addestrati direttamente dai militari statunitensi. La guerra raggiunse un’intensità tale che El Salvador finì per espellere migliaia di persone fuori dai propri confini. La maggioranza fuggì verso Los Angeles, in California, incrementando la massa umana di salvadoregni che nella seconda metà degli anni Settanta era uscita dal paese, quando la guerra stava per cominciare. Questa massa di migranti, per lo più rifugiati e disertori, una volta arrivata negli Stati Uniti dovette però scontrarsi con la seconda colonna portante della politica della presidenza Reagan, dopo quella estera: le droghe come principale nemico dell’America. Ciò fu ancora più evidente in California, dove l’ex attore governò per cinque anni: a partire dal 1982, di conseguenza, la repressione dele bande e delle pandillas latine che si dedicavano al piccolo spaccio di stupefacenti diventerà la priorità assoluta.
Di conseguenza, i migranti costretti a tornare in Centroamerica dopo aver formato a Los Angeles le prime gang si unirono con quei giovani senza lavoro che erano cresciuti con la guerra e che erano stati privati della possibilità di studiare o d’imparare un mestiere. Molte di queste persone, finita la guerra, si rifiutarono di deporre le armi e, seguendo l’esperienza fatta negli Stati Uniti dai pandileros, iniziarono a entrare dentro le nuove bande che riprendevano forma nel paese.
I membri delle maras sono ragazzini. Spesso, già a undici anni iniziano il loro apprendistato, guidati dai capi più “anziani”, ovvero ventenni e trentenni che si assumono il compito di trasmettere loro la filosofia alla base delle pandillas: non l’instaurazione del socialismo o la difesa della patria, ma esclusivamente l’odio per la banda rivale. Le maras controllano territori, spesso quartieri marginali delle più grandi città dell’America Centrale. Lo fanno attraverso reti di relazioni che uniscono diverse clicas, le unità più piccole della banda, alle prigioni che ospitano molti dei loro leader. Le loro attività criminali riguardano il piccolo spaccio, assalti, furti, la richiesta di estorsioni a negozianti e proprietari d’imprese di trasporto.
Negli anni Duemila, grazie a flussi migratori sempre più consistenti, arriveranno anche in Europa – in Spagna e in Italia – diventando però un’altra cosa (gli antropologi Freddi e Grassi hanno studiato nei loro testi, Il limbo urbano – Ombre Corte – e Il viaggio e la trama. Migrazione, sviluppo e potere in una comunità indigena del Guatemala – Cisu –, proprio tali differenze e gli specifici processi nei nuovi contesti di approdo).
Miguel Ángel Tobar, il protagonista del libro dei fratelli Martínez, non ha l’aspetto del tipico pandillero: non porta tatuaggi in volto, non veste alla cholo, non indossa pantaloni larghi e Nike Cortez ai piedi. La sua clica opera in una zona rurale di El Salvador, non nelle periferie della sua capitale. La vita quotidiana di El Niño, però, ci aiuta, più di molte altre, a comprendere le motivazioni che hanno spinto quel ragazzo a sferrare un colpo di machete nella stazione di Villapizzone l’11 giugno 2015. I Martínez riescono a fare questo evitando di sedurre il lettore attraverso la “pornografia della violenza”. All’opposto, seguendo la migliore tradizione etnografica, mettono in luce il punto di vista interno, ricostruendo la lunga storia di potere che ha creato le condizioni per far nascere le maras, per far sì che migliaia di ragazzi centroamericani abbracciassero la violenza come unica forma per dare senso alla loro vita.
Il 24 dicembre del 1994 Miguel Ángel decise per la prima volta di uccidere. Era un bambino di appena dieci anni quando si nascose tra i cespugli per colpire due uomini che si sbronzavano con guaro di canna da zucchero. Ciò che emerge leggendo, giorno dopo giorno, le sue pratiche di vita quotidiana, è che è impensabile approcciare le migrazioni e i fenomeni delinquenziali a esse legati senza la consapevolezza dei rapporti di potere che storicamente hanno marcato le relazioni tra i paesi di provenienza e quelli di arrivo. In secondo luogo, appare evidente, pagina dopo pagina, quali sono gli effetti delle politiche repressive in ambito migratorio: generano più violenza.
Il libro si compone di una prefazione/introduzione dei due antropologi italiani, del prologo degli autori, di quattro capitoli e di undici fotografie finali. La copertina ritrae El Niño con una granata M-67 che nascondeva ogni giorno nel solar dove aveva trovato rifugio dopo essere diventato un collaboratore di giustizia. Miguel Ángel Tobar nasce e muore come “spazzatura”, scrivono i due autori: “quei rifiuti che la grande macchina degli Stati Uniti d’America a volte butta fuori dalle sue frontiere. Rifiuti lanciati verso El Salvador, un paese che è un tritacarne. Questi rifiuti umani tuttavia sono vivi, sono decisamente vivi dopo essere stati espulsi. Con il tempo, il prodotto di questi rifiuti torna in qualche modo a inceppare gli ingranaggi di quelle macchine che li hanno triturati e buttati”.
El Niño è stato coinvolto in trenta omicidi. In una delle fotografie è ritratto insieme alla sua compagna, ancora minorenne, Lorena, alla quale chiede di preparargli un caffè utilizzando il gergo pandillero, ovvero invertendo le sillabe di quasi tutte le parole. Nelle pagine finali appare sempre più emaciato. Vive ormai nella sua casa da “protetto” con la moglie e le due figlie da quasi due anni, entrando e uscendo dai tribunali, “mascherandosi per affrontare i suoi hommies nelle corti e sentendosi stupido nel farlo”. Miguel Ángel sa che, per quanto lo chiamino Liebre o Yogui nei report giudiziari, tutti sanno che lui è El Niño de Hollywood; è consapevole, di conseguenza, che presto la sua ex banda verrà a prenderlo per ucciderlo, come lui ha fatto altre volte nella sua vita da sicario.
A distanza di quasi dieci anni dalla violenza di Villapizzone libri come questo ci permettono di non essere vittime di articoli giornalistici che toccano solo in superficie tali mondi culturali, illuminandoli e facendoli scomparire dall’orizzonte mediatico secondo logiche esclusivamente economicistiche, ma, all’opposto, di continuare una tradizione di studi e ricerche che ha dato origine agli studi urbani unendo la migliore qualità del reportage al rigore della metodologia etnografica. (giuseppe scandurra)
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