29 novembre 2019, Centro Direzionale di Napoli, sala Siani del consiglio regionale. Il convegno sul tema del lavoro penitenziario organizzato dal Garante campano dei diritti dei detenuti si presenta come un classico evento politico. In cima alla locandina ci sono lo stemma della Regione e quello del Garante. È proprio Rosa D’Amelio, presidente del consiglio, ad aprire i lavori. Seguiranno una serie di interventi con l’obiettivo di “mettere in rete” quelle professionalità che, in modalità diverse, si occupano di carcere e lavoro penitenziario, in modo da “favorire il reinserimento dei detenuti”.
Arrivo con un po’ d’anticipo. Il garante, Samuele Ciambriello, accoglie i suoi ospiti mentre i ragazzi dell’Osservatorio regionale sulla vita detentiva si assicurano che tutto sia in ordine. Mentre prendo posto, dall’altra parte della sala vedo entrare Antonio Arzillo, volto noto del neofascismo campano, recentemente al centro di polemiche per l’affissione di uno striscione fascista in onore di Rastrelli, proprio dinanzi alla sede della Regione. Arzillo, ex dirigente di Forza Nuova, estimatore di Marine Le Pen e Alba Dorata, si definisce di professione “progettista sociale”. Nel suo curriculum può vantare rapporti privilegiati con il Garante dei detenuti campano e con le dirigenze di alcuni istituti di pena, oltre che finanziamenti importanti per associazioni e cooperative a lui riconducibili, come quello di ben 170 mila euro ricevuto dal ministero delle politiche sociali nel 2016 per installare un orto in un bene confiscato. Scoprirò nei giorni successivi che Arzillo ha un ruolo di primo piano anche nella cooperativa che si è aggiudicata un bando indetto dall’Osservatorio, per il monitoraggio e la raccolta dati sulle condizioni dei penitenziari della regione.
Ciambriello snocciola i dati sul lavoro penitenziario in Campania relativi al 2018, che definiscono un quadro non positivo (solo il venti per cento dei detenuti lavora all’interno degli istituti penitenziari in cui si trova; il cinque per cento lavora per datori esterni). Già in questa prima fase l’approccio del convegno sembra essere abbastanza superficiale. Su tutti spicca l’intervento della D’Amelio, che argomenta la propria attenzione alla questione carceraria rivendicando la presenza al fianco dei detenuti nel corso delle festività natalizie. E ancora: «Quando ero sindaco di Lioni, il carcere di Sant’Angelo dei Lombardi costituiva un’eccellenza in Campania».
Uno dei nuclei centrali della discussione è la distanza tra i principi che regolano il diritto del lavoro e la gestione dello stesso all’interno dei penitenziari. Se fino agli anni Settanta il rapporto di lavoro del detenuto era legato alla funzione punitiva assegnata all’istituzione carceraria, con l’entrata in vigore della legge sull’ordinamento penitenziario del 1975, il lavoro tende a perdere il carattere afflittivo, per diventare un elemento cardine del trattamento penitenziario, diretto a “rieducare” il detenuto e reinserirlo nella collettività. Stando alle norme, l’organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario dovrebbero riflettere quelli del lavoro nella società libera: la determinazione delle remunerazioni, per esempio, viene agganciata agli indici di adeguatezza fissati dalla contrattazione collettiva; tuttavia, nonostante la riforma del 2018 intervenga sulla disciplina della remunerazione stabilendone la quantificazione in una misura fissa (pari a due terzi delle cifre previste dai contratti collettivi), si supera il termine “mercede”, ma non si parla ancora di “retribuzione” dei detenuti. È una distinzione terminologica che però riflette una differenza salariale. A parità di prestazione, per il lavoratore-detenuto, è prevista infatti una remunerazione inferiore, in misura prestabilita, rispetto a quella del lavoratore libero. Per di più, la commissione preposta alla determinazione dei salari si è riunita l’ultima volta nel lontano 1993, determinando una stagnazione insostenibile.
A causa di una legislazione insufficiente e delle prassi ancor più discriminanti con cui si applica la disciplina, le disuguaglianze tra il lavoro “dentro” e “fuori” dal carcere sono ancora consistenti, nonostante i tempi siano maturi per una normalizzazione del lavoro penitenziario (una sentenza della Corte Costituzionale riconosce la funzione del lavoro nelle carceri come fondamentale per il reinserimento sociale, “senza che questo possa concretarsi in minori garanzie per i lavoratori detenuti, che sarebbero in contrasto con i principi costituzionali”). La normalizzazione, che potrebbe per esempio realizzarsi attraverso una più incisiva rivendicazione collettiva dei diritti sindacali dei detenuti, è fortemente ostacolata dal fatto che le iniziative personali e assembleari in carcere sono fortemente limitate, dal momento che devono considerarsi “ammissibili” solo qualora non siano in contrasto con le misure di sicurezza necessarie. Allo stesso modo viene limitato il diritto di sciopero, sia perché in contrasto con l’obbligatorietà del lavoro, sia per ragioni di ordine e sicurezza. Nessuna tra le tre maggiori associazioni sindacali ha dedicato una sezione del proprio statuto al lavoro penitenziario, dimostrando un sostanziale disinteresse per questa realtà.
Nel corso del convegno si è tornati spesso sul tema delle distanze tra il modello normativo, quindi il piano teorico, e la realtà, portando come esempi questioni rilevanti come il diniego dell’indennità di disoccupazione ai detenuti da parte dell’Inps, scelta dichiaratamente legata a “esigenze di bilancio”. Ma proprio nello stesso convegno il dibattito si è concentrato su questioni avulse dalle problematiche del territorio: non si è fatto cenno, per esempio, al problema occupazionale, nonostante la concreta incidenza di questo fattore sul numero di reati, sul reinserimento, sulla recidiva.
Se è vero che la legge ha conferito maggiori poteri agli enti locali in materia di collocamento e servizi per l’impiego, è anche vero che la Regione spesso si limita a finanziare progetti isolati senza una programmazione di lungo periodo. L’implementazione e il finanziamento di attività di orientamento e di inserimento lavorativo, il monitoraggio delle esperienze già presenti e la pianificazione delle risorse disponibili, la messa in campo di strumenti, procedure, obiettivi diversificati, sono piani su cui le politiche del lavoro nella nostra regione sono carenti da decenni. Il discorso è analogo per il reinserimento degli ex detenuti. Lo stato prevede sgravi fiscali e contributivi per le imprese che decidono di assumere ex detenuti, ma spesso le aziende non sono neppure a conoscenza di questi benefici, mancano protocolli di collaborazione tra pubblico e privato, poche sono le iniziative in questo senso da parte di amministrazioni pubbliche o enti locali; rimangono accessibili le cooperative, che però faticano a sopravvivere. E se un lavoro lo si trova, spesso le procedure burocratiche e i ritardi amministrativi vanificano i tanti sforzi compiuti.
L’assenza di uno sguardo complessivo su tali questioni rende sterile qualsiasi ragionamento – che pure qualche relatore più coraggioso ha provato a fare nel corso del convegno – rispetto all’insufficienza delle politiche in atto, dei corsi di formazione, delle esperienze lavorative alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, del lavoro di pubblica utilità, ovvero quella forma di lavoro non retribuita all’esterno del carcere, presso amministrazioni, enti, organizzazioni di assistenza sociale, sanitaria e volontariato. Si tratta, tanto per cambiare, di progetti non appositamente predisposti per detenuti, in passato svolti dietro corrispettivo ma attualmente utilizzati di fatto per sfruttare forza lavoro (quella detenuta) non retribuita, rinnovando l’antica concezione del lavoro penitenziario come “ammenda”. Non è sorprendente, partendo da questo presupposto, ascoltare Nicola Marrazzo, presidente della commissione lavoro del consiglio regionale, affermare che «si devono recuperare solo i detenuti che vogliono essere recuperati, che hanno sbagliato occasionalmente», oppure osservare la completa indifferenza rispetto al tema da parte del presidente dei giovani imprenditori, Vittorio Ciotola.
Il tenore della riforma penitenziaria del 2018, che si presenta come un’occasione sprecata per un vero rilancio della risocializzazione attraverso il lavoro, e quello degli interventi del convegno, testimoniano ancora che fin quando queste tematiche verranno affrontate da una classe politica così inconsistente e ancorata a retaggi culturali passati, sarà davvero arduo programmare delle linee mirate ed efficienti. (paola enne)
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