Come tutte le periferie dell’area metropolitana, il Rione Traiano si trova periodicamente sotto i riflettori, quasi sempre in concomitanza con accadimenti di cronaca nera. Per qualche tempo la stampa e l’opinione pubblica si ricordano dell’esistenza di questi enormi ghetti, ne denunciano la massiccia presenza malavitosa, si mostrano indignati per le condizioni di abbandono in cui operano la scuola, le associazioni e tutte le persone che provano a restituire a quei luoghi una dimensione più umana. Ma la denuncia è sempre fine a se stessa, tanto più che la politica se ne infischia, salvo qualche dichiarazione d’intenti tanto vaga quanto estemporanea. Il quartiere e i suoi problemi passano di moda nel tempo necessario a chiudere la pagina di un giornale, come se quelle vite trovassero senso solo all’interno del racconto predeterminato che del quartiere si intende fare.
Qui raccontiamo le storie di alcuni abitanti del Rione Traiano. Persone che lavorano o sono disoccupate, studiano o cercano un posto dove andare a dormire, insegnano oppure organizzano associazioni. Senza pretesa di dividere i buoni dai cattivi, ma cercando di far emergere le esistenze quotidiane di chi il rione lo abita, con tutte le infinite sfumature che si trovano nello spazio che esiste tra il bianco e il nero.
Carmine Giarnieri, un battente
Abito nel 37, e da quarant’anni sono il presidente dell’Associazione Madonna dell’Arco Miracolosa. Le persone si fidano di me, sono uno che sa prendere le decisioni. Come battenti siamo andati da sempre a chiedere una mano alla gente del quartiere. Raccogliamo le offerte e organizziamo la festa, ci vogliono bene.
L’associazione non nasce nella sede in cui stiamo adesso, nasce giù a uno scantinato. C’era un gruppo di ragazzi che già si riuniva prima che arrivassi io, ma erano pochissimi. Andavano facendo la questua per la funzione della Madonna dell’Arco, io mi sono unito e ho dato una mano. Dopo un poco mi hanno proposto di fare il presidente. La funzione la facevo già a Capodichino, dove abitavo da ragazzo, ho cominciato a occuparmene che avevo dodici anni. Là ci sta l’associazione Sant’Antonio, è molto famosa, e hanno come simbolo una bandiera che ho fatto io, la tengono conservata come una reliquia, incastonata dentro al muro. Oggi di anni ne ho ottantacinque, ci ho speso una vita.
Sono venuto nel Rione Traiano nel 1962, quando ho avuto l’appartamento dall’Ina Casa. Non era un quartiere, era un’enorme terra. Si camminava nel fango, in questa zona più di altre. Non c’era niente, solo terreno, che diventava fango perché da Pianura scendeva un piccolo corso d’acqua, una specie di fiume, che doveva scorrere tra le vallate, ma le vallate furono riempite e quindi non aveva più sfogo. Qualche anno dopo mi misi appresso a questi ragazzi, per mantenerli su una strada diritta, perché capii che loro qualche interesse lo avevano ma non avevano modo di coltivarlo. Nello scantinato di un appartamento facevamo i film. Andavamo a prendere le pellicole vecchie, tagliavamo i pezzi e li riattaccavamo. Poi, questi ragazzi giocavano sempre a pallone su questi terreni immensi, facevano delle partite venti contro venti, trenta contro trenta, senza regole. Io allora dissi: scusate ma voi siete bravi, facciamo una squadra di pallone e facciamo le cose seriamente. E così fondammo la Polaris Traiano. Recintammo un campo, mettemmo le porte, le reti, poi ci dissero che dovevano fare delle palazzine e ci fecero togliere tutto. Fu un peccato perché il campo era sempre pieno, la squadra arrivò fino alla serie D e i ragazzi imparavano le regole attraverso lo sport. Ogni domenica venivano a vedere le partite quattro-cinquecento persone, perché nella gente del rione, che era tutta gente arrivata da quartieri diversi, si stava cominciando a creare un senso di appartenenza. Stavamo portando pure dei ragazzi al Napoli ma alla fine non se ne fece niente. Mi ricordo che la buonanima di mia moglie li faceva salire dopo gli allenamenti a questi ragazzi e gli metteva persino il piatto a tavola. C’era uno che lo chiamavano Nicola ‘o Niro, bravissimo. Un altro ‘o Ribelle. Poi Sorrentino, che è diventato giocatore di pallone, ha fatto fino alla serie C.
Questo per quanto riguarda i più grandi. I piccoli li andavo raccattando direttamente per strada la mattina perché le famiglie non li mandavano a scuola e io li portavo alla scuola dietro ai Pellegrini, dato che qui scuole non ce n’erano. Solo che tra il lavoro, i ragazzini, la squadra, non sapevo come dividermi, perché le maestre non li riuscivano a gestire e mi dicevano che dovevo restare là perché solo a me questi diavoli stavano a sentire.
Nel frattempo con i battenti ci mettemmo a lavorare per l’associazione. La prima cosa fu la sede. Non potevamo stare nella cantina, e decidemmo di aggiustare questo posto dove oggi c’è la sede, che era pieno di spazzatura, di scarti dell’edilizia, insomma era abbandonato. Noi lo conoscevamo perché ogni volta che costruivamo il tusello per la processione, che sarebbe il trono, il supporto per la statua, ce ne venivamo qua a lavorare. Così lo ripulimmo, ci facemmo i muri interni e cominciammo a frequentarlo tutti i giorni. Per questa cosa sono stato citato dal comune di Napoli come costruttore abusivo, per aver fatto lo spazio qua fuori, aver messo i mattoni a terra dove c’era il terreno, aver alzato i muri, eccetera. Ovviamente sono stato assolto e il giudice alla fine del processo vide le mie foto della Madonna dell’Arco e me le chiese perché era uno studioso e un appassionato. Nella mia difesa gli avevo detto: «Dottore, a me mi hanno dato una casa che è un dormitorio, io là dentro ci devo solo dormire, poi devo fare altro. E se questo posto sta chiuso e pieno di immondizia, non è meglio che ci mettiamo a lavorare noi?».
A quell’epoca non stavo ancora all’università. Stavo alla Pirelli, ho lavorato diciotto anni allo stabilimento di Arco Felice. Sono entrato a ventidue anni e ho finito a quaranta. Prima di venire nel rione abitavo a Secondigliano. E andare a lavorare la mattina era una mazzata. Me la facevo di corsa fino a piazza Carlo III, dove pigliavo il pullman per andare in fabbrica. Mi chiamavano Rondinella talmente della corsa che avevo. Dopo questa maratona mi andavo a fare otto ore in fabbrica e alla Pirelli sono stato uno degli operai più premiati. Anche quando ero operaio semplice mi davano dei ruoli di responsabilità perché sapevo fare tutto. Mi mettevano alle sei di mattina a mettere a posto il materiale esterno, poi finito quello me ne andavo sopra al carroponte dove il materiale andava trasportato nelle cabine. Poi me ne scendevo e andavo a fare le prove dei cavi. Ero molto considerato là dentro, quando c’era da risolvere delle cose, pure i guai che facevano gli altri, chiamavano a me.
A un certo punto lasciai la fabbrica. Un amico mi disse che c’erano delle assunzioni all’università. Fui assunto come bidello al ministero della pubblica istruzione. Dopo qualche anno ebbi la nomina come bibliotecario. Là cambia la mia vita, perché io con quei testi che stanno nella biblioteca dell’università c’ho costruito un rapporto d’amore. Li esaminavo, me li studiavo, li trasmettevo agli studenti e i professori. Davo consigli pure per le ricerche, perché nel frattempo li avevo imparati a memoria. Ho collaborato con il Maggio dei Monumenti per molti anni. Stavo alla chiesa di piazza Bellini, dovevo guidare chi veniva a visitarla, migliaia di persone. Era una cosa bella, avevo imparato la storia di ogni pietra di quella chiesa.
Il circolo sta qui al rione da quarant’anni. È stato intitolato ad Aldo Moro e i caduti di via Fani quando ci fu la strage. La bandiera più vecchia risale al 1970, è una bandiera piccolina, oggi ne abbiamo a decine più grandi, però quella è simbolica. Io sono anche un delegato del Santuario della Madonna dell’Arco, sempre perché le persone finiscono per darmi dei ruoli di responsabilità. Usciamo in processione da tanti anni, nel quartiere ci conoscono tutti, abbiamo un buon rapporto con la gente. Negli anni abbiamo chiesto sempre una mano, ma è anche vero che io ho cercato sempre di aiutare le persone, per quanto mi era possibile. Non per lavoro o per soldi, ma perché qua sopra ci conosciamo tutti, quelli che sono venuti a vivere come me quaranta anni fa e i loro figli, e i figli dei loro figli.
Abbiamo dato un segno di educazione al quartiere, a me mi rispettano perché lo sanno che lo faccio con fede. I “battenti” si chiamano così perché sono quelli che devono battere i piedi a terra; i “fujenti”, invece sono quelli che non si possono fermare. La chiesa di riferimento è quella dell’Immacolata, da cui parte la processione: attraversiamo tutto il quartiere. La statua che vedi fuori alla sede l’ho pagata duemila lire, è un tronco di legno fatto dallo scultore Eboli a Spaccanapoli, un grande maestro. E l’abbiamo messa incastonata nelle mattonelle, che sono state fatte dai Solimene, delle famiglie di artigiani che stanno dalle parti della costiera. Noi siamo sempre andati nei migliori posti. Pure per i fuochisti: a Salerno e a Nola, da quelli che fanno i Gigli. Mi ricordo una volta che la Madonna l’abbiamo fatta scendere con il paracadute in mezzo ai fuochi. Era un anno che non avevamo raccolto molti soldi, non avevamo la stoffa e così andammo a Resina per recuperarla. In una bottega, una vecchietta che sentì tutta la storia si tolse la gonna, si strappò la seta e ce la regalò. Poi andammo sotto ai ponti di Ercolano, dove c’era un pittore, che ci dicevano fosse un grande artista, per fargliela dipingere. E in effetti venne molto bene, la funzione fu bellissima, scese la Madonna da cielo con tutti i bigliettini: “L’associazione Aldo Moro dà l’augurio di una buona Pasqua a tutti i fedeli del Rione”.
Un giorno, una ventina di anni fa, abbiamo avuto una visita dei carabinieri. Perquisizione, non trovano niente. Ma ci fanno sei milioni di verbale: due a me, due al gestore, e due a un ragazzo che stava giocando vicino al flipper. Il giorno dopo vado in caserma e porto tutti i documenti. Chiedevo spiegazioni ma nessuno mi diceva niente. Così sono andato al comando dei carabinieri, gli ho chiesto che c’era che non andava, gli ho fatto vedere i documenti ed era tutto in regola. Elenco dei soci, elenco delle attività, io ho sempre scritto tutto per quarant’anni. Così vado alla caserma Pastrengo, dove conoscevo il maresciallo e gli dico: «Marescià, qua ‘sti sei milioni chi li paga?». Alla fine si scopre che questo verbale era stato fatto per il divieto di vendere alcolici, ma noi non vendiamo nemmeno l’acqua. Era stato proprio che erano entrati là e qualcosa dovevano fare, quelle azioni diciamo dimostrative. Noi perciò abbiamo sempre levato la parola “circolo”, non siamo un circolo, siamo un’associazione, sotto il patrocinio del Santuario della Madonna dell’Arco. Io tengo persino il codice fiscale, che non ce l’ha nessuno. Così chiarito il mistero fu facile dimostrare che non facevamo niente di male. Andai all’ufficio delle industrie e risolsi la cosa in dieci minuti. Anche perché l’agente in servizio che si occupava della pratica era… un battente mio! (riccardo rosa)
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