“No care, no help, no travel, no food”. Sono queste le parole scritte su un foglio di carta che Khaled sventola in mezzo alla strada principale di Porto Empedocle. Lui e Mohamed sono due minori somali approdati sull’isola di Lampedusa e poi trasferiti nella tensostruttura di Porto Empedocle dove stazionano ormai da cinque giorni. La situazione che sperimentano è chiara: «No freeedom», sintetizza Mohamed. Li incontriamo insieme a centinaia di minori stranieri non accompagnati e richiedenti asilo di diversa nazionalità, età e genere che nel corso di quest’ultima settimana sono stati trasferiti all’interno del campo empedoclino in attesa di essere ricollocati in centri di accoglienza in Sicilia e in altri luoghi della penisola.
Infatti, la tensostruttura collocata nel porto della cittadina agrigentina è da diversi mesi il secondo approdo delle persone migranti che giungono via mare a Lampedusa e che, a fronte dei numeri esponenziali di arrivi sull’isola delle Pelagie, sono stati spostati rapidamente sul territorio siciliano per alleggerire l’hotspot di Lampedusa.
La tensostruttura – che consiste in un piazzale di cemento dove sono collocati due tendoni, diciotto bagni chimici e docce esterne – è un’area di sbarco temporanea che la prefettura di Agrigento sembra utilizzare per identificare e smistare le persone migranti, coadiuvando di fatto le attività di pre-identificazione implementate dalle autorità nell’hotspot di Lampedusa. La tensostruttura è quindi un secondo punto di approdo in cui le persone – trasferite qui anche poche ore dopo lo sbarco lampedusano attraverso le navi traghetto Galaxy – vengono fotosegnalate e viene rilasciato loro un numero identificativo: un numero stampato su un quadratino di carta, nessun cedolino, nessuna foto. Molti portano questo numero stropicciato in tasca, alcuni lo hanno già perso.
Qui le persone – donne, uomini, minori e famiglie originarie della Guinea Conakry, Costa D’Avorio, Senegal, Gambia, Burkina Faso, Camerun, Sierra Leone, Giordania, Egitto, Tunisia, Siria, Mali, Sudan, Somalia, Etiopia, Liberia – stazionano per giorni e giorni, trattenute in maniera prolungata all’interno di un campo di cemento presidiato dalle forze dell’ordine e gestito dal personale della Croce Rossa, dove sono praticamente assenti rappresentanti delle organizzazioni umanitarie, grandi e piccole.
Nonostante il trattenimento dovrebbe durare solo il tempo necessario all’identificazione e alla disposizione del trasferimento, il transito non è breve e sembra durare una media di almeno cinque giorni. In questo tempo, alle persone è impedito di uscire dalla porta principale, pertanto sono costrette, a causa della totale invivibilità del luogo, a saltare dalle recinzioni laterali e posteriori per cercare all’esterno aiuto, cibo, contatti, informazioni, libertà.
Le persone trattenute in questo luogo raccontano di non aver ricevuto alcuna informativa relativa all’accesso ai loro diritti, alla protezione internazionale o altre forme di tutele. Inoltre riferiscono di essere trattate come animali in gabbia: il campo infatti è senza letti, sedie, tavoli e le persone stazionano stese a terra – i più fortunati su cartonati di non precisata origine – sotto il sole cocente, in uno spiazzale ricoperto di spazzatura, cassonetti e avvolto dall’odore pungente dell’urina. Le persone riferiscono di vivere in stato di continua incertezza e forte stress dipendente non solo dalle condizioni strutturali di invivibilità del campo ma anche a causa dell’attesa prolungata di un trasferimento in accoglienza che sembra non arrivare mai.
E mentre si passa la giornata nell’afa di settembre – tra un cambio turno delle forze dell’ordine e un’intervista ufficiale rilasciata dalle autorità ai giornalisti – arrivano da Lampedusa traghetti carichi di altre centinaia di persone che vengono scortate fino all’ingresso del centro e fatte entrare nei piccoli vuoti di spazio rimasti nel piazzale. Qui le persone vengono sottoposte a un appello pubblico, senza alcun rispetto della privacy e attraverso l’uso esclusivo delle lingue veicolari principali: francese, inglese, arabo.
In queste giornate di permanenza, qualche turista passava per il porto e fotografava le persone dietro le sbarre, qualche locale si lamentava del “disagio”, qualche giornalista riprendeva quelle persone trattenute che si infuriano dopo l’ennesima giornata di prigionia.
In questo circo periferico, la tensostruttura di Porto Empedocle risulta una zona d’ombra rispetto alle luci dello “spettacolo Lampedusa” che continua ad avere i riflettori puntati sulle proprie coste. Eppure nel corso della settimane le persone trattenute in questo piccolo piazzale – senza assistenza legale, sanitaria e libertà personale; senza letti, senza sufficienti professionisti medici e sociali, con carenze alimentari e patologie mediche – sono state più di mille, di cui l’ottanta per cento costituito da minori non accompagnati e altre figure considerate vulnerabili.
LE PROTESTE DELLE DONNE
Il malessere è progressivamente cresciuto e così le manifestazioni di scontento delle persone trattenute. Diversi gruppi hanno iniziato delle proteste per il trattamento disumano a cui sono costrette a Porto Empedocle: l’inadeguatezza alimentare – pane con formaggio e pomodoro a tutti i pasti, cibo in quantità e qualità insufficiente – l’assoluta promiscuità senza separazioni tra uomini e donne, l’esposizione a ulteriori condizioni di violenza e soprattutto la condizione di privazione della libertà.
Nella giornata del 19 settembre, un gruppo di donne minori guineane ha dato avvio a una protesta davanti al cancello principale della struttura, al grido di: «Liberateci! Liberateci! non siamo prigioniere, lasciateci andare!». Le ragazze sono dunque salite sul muro che delimita la struttura e hanno cominciato a gridare e ad arrampicarsi, tentando di scavalcare le inferriate. Le donne hanno poi occupato l’ingresso della tensostruttura sedendosi a terra in segno di protesta.
Questa condizione di esposizione alla violenza, a cui specifiche categorie, quali le donne e i minori non accompagnati, sono sottoposte, connota la gestione disciplinante di una struttura ideata e pensata come “deposito” di persone.
Persone sottoposte a gravi violazioni di diritti e a continue forme di abuso, coercizione e limitazione della libertà che vengono raccontate, gestite e strumentalizzate a livello pubblico – tanto da politici che da giornalisti – come normali conseguenze di una condizione emergenziale. Eppure non c’è emergenza che possa giustificare il trattamento riservato ai neo sbarcati sulle coste nord del Mediterraneo, destinati a essere “ritirati” e “riconsegnati” come abbiamo sentito dire in queste ore da chi gestisce la tensostruttura.
Le persone migranti continuano a opporsi a questo controllo violento, cercando informazioni e risorse all’esterno. Le diciassettenni guineane hanno preteso di avere nel piazzale un’area femminile di loro uso esclusivo, poiché ormai da più di sette giorni erano completamente esposte senza alcuna tutela, preoccupate delle possibili violenze nel centro. Nei giorni successivi, esasperate, hanno scavalcato il muro per cercare all’esterno un minimo di libertà e benessere. Due di loro erano fortemente indebolite da patologie pregresse che non erano state adeguatamente attenzionate e, per le strade del centro empedoclino, cercavano cibo e acqua.
Tra le numerose donne qui detenute, ce n’erano varie in stato di gravidanza. Alcune di loro sono state trasferite in ospedale per partorire e subito dopo ricollocate nella tensostruttura, senza i loro figli neonati.
Molte delle persone incontrate si trovavano in evidente stato di disidratazione e deprivazione fisica, nonché di forte sofferenza psicologica dipendente dal trattenimento prolungato e dalla mancanza di contatti con il mondo esterno. Tutti i trattenuti cercavano la possibilità di comunicare con le famiglie di origine o con conoscenti e avvisare i propri familiari del loro arrivo, non avendo potuto farlo nonostante l’approdo fosse avvenuto ormai da quasi una settimana.
TRANSITO, TRATTENIMENTO E DEPORTAZIONE
Questa stazione di transito e identificazione successiva a Lampedusa, sarà nelle prossime settimane potenziata e al posto della tensostruttura verrà adibito un centro hotspot, che sta nascendo dai lavori in corso in queste ore. Il prefetto di Agrigento, Filippo Romano, ha dichiarato che «l’hotspot di Porto Empedocle sarà collegato a quello di Lampedusa dalla stessa gestione, la Croce Rossa. […] I due hotspot devono essere visti come una sorta di ponte: quello di Lampedusa accoglie in prima battuta e quello di Porto Empedocle instrada, il più velocemente possibile, verso i pullman».
In continuità con la gestione migratoria che ha caratterizzato l’Europa negli anni passati, l’unico “ponte” finanziato e promosso è quello che conduce alla sorveglianza, all’umiliazione, allo smistamento e incanalamento giuridico di persone che vengono irregolarizzate, dove il dispositivo della detenzione continua a essere principale strumento di controllo degli spostamenti umani.
Questa modalità di controllo della mobilità delle persone in arrivo alla frontiera siciliana è da inquadrare nelle nuove riforme promesse dal governo: il rafforzamento a livello nazionale del sistema detentivo del CPR, con nuove strutture e un periodo di trattenimento esteso a diciotto mesi; l’introduzione di nuovi centri identificativi e di rimpatrio come CPRI a Modica, nella Sicilia orientale, connotano la risposta europea e nazionale all’aumento degli arrivi dalla Tunisia e dalla Libia, due luoghi da cui le persone continuano a fuggire forzatamente, sopravvissute ai loro regimi che i governi europei continuano a finanziare.
In tal senso, i discorsi di Meloni e Von Der Lyen che, durante la passerella a Lampedusa nei giorni del sovraffollamento, hanno inneggiato all’arresto dei trafficanti e alla sorveglianza militare, sono in continuità con un sistema che continua a porre come soluzione la detenzione al posto di una vera accoglienza, la violenza al posto dei diritti e che – con le nuove strutture – affinerà la macchina criminalizzante del respingimento.
Intanto, mentre nei diversi angoli della Sicilia proliferano hotspot e ghetti, a Porto Empedocle le persone in arrivo continuano a protestare per la libertà di movimento. (yasmine accardo / silvia di meo)
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