Sono le cinque del pomeriggio di un venerdì di luglio. Davanti alla stazione della metro non ci sono artisti di strada e pittori di santi, né ragazzini in bicicletta che fanno lo slalom tra la folla di via Toledo. Il fioraio che adorna il vicolo prospiciente la strada con piante e cuori rossi si è affacciato a fumare. I clochard accampati sulle scale di Santa Maria delle Grazie si sono spostati altrove, così come i venditori ambulanti di mascherine a due euro l’una. I turisti sono pochi, sembrano passati vent’anni dalla scorsa estate.
Ci sono, invece, gruppi di persone che cominciano a radunarsi. Molte donne, anche giovani, con indosso una t-shirt bianca sulla quale è stampata la foto di un ragazzo. Ai margini gli uomini, alcuni dei quali sui motorini. Davanti al palazzo della Banca Nazionale del Lavoro c’è un camioncino con l’amplificazione e un attivista che parla al microfono. Racconta la storia di un quindicenne dei Quartieri Spagnoli ammazzato a colpi di pistola. I passanti allungano l’orecchio, qualcuno si ferma, la maggior parte tira dritto. Dietro il furgoncino ci sono sei poliziotti in borghese.
Dopo una pausa, mentre affluiscono altri ragazzi dai vicoli dei Quartieri, riprendono gli interventi. Uno striscione con la foto di due giovani, Ugo e Davide, viene sostenuto da sei donne. Un altro, lungo e bianco, è stato srotolato per terra. Sopra c’è il volto stilizzato di Ugo Russo e la richiesta di “verità e giustizia” per la morte del ragazzo. Sono passati centoventicinque giorni dall’omicidio di Ugo, un tempo in cui non sono stati comunicati neppure i risultati ufficiali di un’autopsia fatta oltre tre mesi fa. Questo è il primo vero momento di commemorazione pubblica concesso ai familiari, che il giorno del suo funerale avevano dovuto portare in giro la bara bianca per il quartiere, tampinate dalle auto della polizia che avevano provato a proibirgli il corteo funebre.
In piazza ci sono quasi trecento persone. Prima della partenza parla la zia di Ugo, che aveva detto cose sensate anche qualche giorno prima, nel corso di un’assemblea pubblica. E poi il papà del ragazzo, seguito da quello dell’altro adolescente ammazzato al Rione Traiano nel 2014, Davide Bifolco. Infine, un’attivista impegnata nelle lotte per la casa, che legge un testo scritto dalla fidanzata di Alfredo, il fratello diciottenne di Ugo.
Poi il corteo parte, mentre i partecipanti alternano slogan, interventi al microfono, momenti di silenzio e commozione. La piccola folla attraversa via Toledo, piazza del Plebiscito e arrivata a Santa Lucia imbocca via Generale Orsini, la strada dove Ugo è stato ammazzato nella notte tra il 29 febbraio e il primo marzo, dopo un tentativo di rapina ai danni di un carabiniere in borghese che ha estratto la pistola e ha fatto fuoco. Le circostanze del delitto sono all’analisi della procura e il militare ventitreenne è indagato per omicidio volontario. La dinamica dell’uccisione è ancora oscura. Dopo essere sceso dal motorino, impugnando probabilmente una pistola giocattolo, il quindicenne ha intimato al carabiniere di consegnargli il suo Rolex. Questi ha immediatamente estratto la pistola e fatto fuoco colpendo il giovane al petto. Ferito, e con ancora indosso il casco, Ugo ha provato ad allontanarsi, fuggendo con passo incerto verso il suo amico che lo aspettava in motorino. Prima di poterlo raggiungere, quando era di spalle al carabiniere, Ugo è stato colpito da altri due proiettili, uno alla tempia e uno alla nuca, come in un’esecuzione. Il carabiniere ha sparato anche altri due colpi, andati a vuoto, verso l’altro ragazzo che nel frattempo si dava alla fuga in motorino.
Il processo per l’uccisione di Ugo Russo sarà complicato quanto e più quello per Davide Bifolco. I media hanno riservato fin da subito un trattamento spietato al ragazzo e alla sua famiglia, come se fosse scontato che un errore, anche grave, di un ragazzino, possa essere pagato con un’uccisione a sangue freddo come quella a cui è andato incontro Ugo. Nell’iter processuale giocheranno un ruolo tanti fattori: le spinte corporative delle forze dell’ordine, che abbiamo imparato a conoscere in questi anni di indagini e depistaggi, mistificazioni e bugie, da Cucchi e Aldrovandi fino a Bifolco; la posizione dogmatica dei media nei confronti della “città di sotto”; alcune questioni tecniche, come i filmati delle telecamere presenti in zona e le perizie di parte, dalle quali emergerebbero elementi decisivi per incriminare il carabiniere, la cui posizione, al momento dello sparo, sarebbe stata lontano dalla macchina e forse addirittura appoggiata al muro per mirare. Ma non è a via Generale Orsini che si deciderà tutto questo. Lì, all’angolo della strada, sui muri e sui cartelloni pubblicitari, sull’asfalto con la pittura e sulle vetrine impolverate con le dita dai ragazzi, è stato scritto per decine di volte il nome di Ugo.
Arrivato il corteo nel luogo dell’omicidio, dal camioncino parte una canzone di Manuel Turizo, cantante reggaeton colombiano. Si chiama Una lady como tu, e pare che Ugo l’amasse molto. Mentre la musica latina si diffonde tra i palazzi, le persone che volevano bene a Ugo scoppiano a piangere. Al microfono si chiede agli abitanti di Santa Lucia in possesso di eventuali video capaci di chiarire la dinamica dell’omicidio, di inviare i filmati ai familiari del ragazzo. Poi la musica finisce, c’è un lungo applauso. «Ugo, vivi!», grida qualcuno dalle retrovie, mettendo l’imperativo al posto del presente indicativo. Non è un ricordo, né uno slogan, ma un’esortazione. Una richiesta che rimarrà inesaudibile e che resterà lì, come quel groppo in gola che ha accompagnato quanti hanno finalmente potuto dare l’ultimo saluto a questa vita perduta prima ancora di trovarsi. (riccardo rosa)
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